La misura e il garbo riscontrabili nei libri di Francesco Scarabicchi (venuto a mancare nel 2021) erano dell’uomo, prima ancora che del poeta. I due aspetti si compenetravano felicemente e inderogabilmente. Non solo perché la struttura e la lingua dei versi in gran parte epigrammatici (rastremati, scrisse Pier Vincenzo Mengaldo nella nota introduttiva a Il cancello, antologia personale edita da peQuod nel 2001) riflettevano alla perfezione il suo temperamento, ma anche perché l’occhio e l’udito di una persona discreta costituivano l’an coraggio per scrivere con un tono sobrio, ignorando la magniloquenza.
Dico piano il tuo nome è il titolo dello splendido volume a più voci edito da Affinità elettive (l’editore è Valentina Conti), curato da Cristina Babino e da Massimo Raffaeli, con l’impegno di Giandomenico Papa e del Centro Studi Francesco Scarabicchi. Un volume che incastona la memoria del poeta attraverso più di ottanta contributi: testi, ricordi e divagazioni tracciano la figura di un anconetano illustre che visse l’infanzia a Grottammare e ad Ortona. Tra gli altri ne scrivono Roberto Galaverni, Massimo Raffaeli, Massimo Recalcati, Emanuele Trevi e Antonio Tricomi. Scarabicchi è ormai da considerare uno dei poeti lirici più significativi, pur essendo operativo sin dagli anni Ottanta ad Ancona, dove il fatto decisivo per la sua formazione fu l’incontro con l’altro anconetano Franco Scataglini, nonché il sodalizio con l’allora giovanissimo critico Massimo Raffaeli.
Resta memorabile la rubrica radiofonica trasmessa dalla Rai Marche “Residenza”, avente ad oggetto la riflessione sulla cultura (universale) a partire da una piccola patria.
Scarabicchi esordì nel 1982 con La porta murata (Residenza, Ancona) dopo alcune tentazioni avanguardistiche lasciate cadere. Il suo ultimo libro uscito postumo, La figlia che non piange (Einaudi, Torino, 2021), ci sembra l’apicale prosecuzione di una linea mai tradita, dove il senso (o il vuoto) dell’orfa nità, dell’abbandono e della perdita, è il punto chiave di una continuità formale e sostanziale all’insegna dell’at traversamento terreno destinato a svanire nel nulla, avvolto da una penombra e da un torpore che non condurranno ad un porto salvifico.
“Qui regna il tempo che scompare, / la fuga sua invisibile, / il nome che non resta, / giorno della stagione, breve resa, / limite d’ogni soglia inesistente”. Un orizzonte che è un tornare al tempo della morte prematura del padre, alla solitudine dell’infanzia, ai protagonisti dell’esistenza di bambino visti poche volte a Grottammare, a Ortona, ai giorni nuovi fermati nell’a desso e nel “passato d’ogni presente”. Ai versi si accompagnano spesso brevi prose, veri e propri fotogrammi definiti “il taccuino di una sosta domestica”, in cui il tempo scandisce il battito dell’a nima, i colori, i ricordi più struggenti. Francesco Scarabicchi è stato anche un poeta di affetti familiari, per cui la parola si fa testamento, offerta, invito al figlio Giacomo, in una delle poesie più intense, con la dedica per il diciottesimo compleanno: “T’accompagni la luce di candela / la tremante che guida, la più forte / perché sa quanta debolezza / ci vuole a illuminare il tuo sentiero, / quanta fragilità a vincere il vento”. Il coraggio vacilla, suggerisce il poeta, come l’alba, come il domani, come ogni “età nuova”. E’ sempre l’i -nesorabilità del tempo a segnare il pensiero poetante, l’ignoto affacciato da una riva, in ciò che si cristallizza nella quiete, nell’innocenza, nella malinconia leopardiana, “oltre le porte e il regno”, nel “nero fondo di verità e natura”. L’ambiente più amato vibra di un afflato personale reso nella transitorietà della vita, peraltro percepita anche nelle traduzioni di due poeti molto amati, Antonio Machado e Federico Garcia Lorca, e nei quadri di Lorenzo Lotto, che dalle sue stanze e nel “cielo di chiusa tenebra d’azzurro”, ispirò Scarabicchi e i versi della raccolta Con ogni mio saper e diligentia (Liberilibri, 2013). L’ultimo sguardo delinea magistralmente le stagioni che passano, in particolare l’amato inverno, clausole che indicano per l’ennesima volta l’impossibilità di un approdo sicuro: “Gelo di tempo fermo e lunghi mesi, / sguardo che custodisce coltre e cuore. // «Neve di nebbia e seme dell’attesa».