È opinione comune che in una selezione rigorosa e ristretta, Maurizio Cucchi sia un poeta già storicizzato a pieno titolo. Se un aspetto della sua opera ci colpisce più di altri, è l’essenzia lità (mai scarna) del verso, più che la propensione minimale di scuola lombarda. Mai una parola di troppo per l’orecchio che accoglie questa poesia come una fonte sonora persuasiva, priva di stonature. Il “suono del silenzio” si propaga come le traversate racchiuse nelle istantanee in bianco e nero, scattate in un’ora imprecisa, nell’ombra e nel buio, tra velature che rientrano in una realtà quotidiana, trasognata, in cui si segnalano indizi e reperti che compongono un particolarissimo album. Album anche di assenze e vuoti, di protagonisti che spariscono e tornano, di corpi e cose identitarie, di piccoli tesori personali. Stile e umanità di un poeta flâneur (Pellegrini 2025), a cura di Tiziano Broggiato, è un omaggio per gli ottant’anni di Cucchi (nato a Milano nel 1945), con componimenti inediti e una raccolta di interventi critici e testimonianze di Alberto Bertoni, Tiziano Broggiato, Roberto Galaverni, Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Roberto Mussapi, Giancarlo Pontiggia, Mario Santagostini, Patrizia Valduga e Gian Mario Villalta. Broggiato parla di poesia ipotattica che si addentra in vie non frequentate, in scenari che inducono a nuove interrogazioni nel nesso sogno-veglia, in cui il tema dell’origine (nella formulazione diaristica) diviene il centro della ricerca a partire dalla splendida raccolta esordiale Il disperso del 1976, proseguendo con L’ul timo viaggio di Glenn (1999), Per un secondo o un secolo (2003), Vite pulviscolari (2009), Malaspina (2013), Sindrome del distacco e tregua (2019), fino a La scatola onirica (2024).
Sereni, Giudici e Raboni sono di fatto i maestri di Cucchi, che opta per un autobiografismo sfumato, che rivela il primato della relazione nell’incrocio io/noi, il segreto invisibile dell’uomo che nel suo passeggiare si ferma e guarda, mentre i luoghi sono investiti di ricordi, constatazioni, trasfigurazioni e rimandi. Scrisse anni fa Enrico Testa sulla poesia di Cucchi: “Un principio di personale consistenza è visto come questione più che come premessa dell’au tosufficienza dell’io”.
“Osservo la crosta / della terra asfaltata / con meraviglia e orrore. / Siamo natura dentro / la natura ma ne saremo / complici o nemici? / Io osservo intanto il colle / fiorito, il dolce colle / intatto nella bruma / e me lo bevo / come in un bicchiere”. Interessante l’approfondimento di Bertoni che sottolinea il realismo pluriprospettico e metodologico “aperto ai meandri dell’interiorità e del trauma di natura psiconalitica”, richiamando l’in fluenza dell’area milanese nella contemporaneità odierna, citando Buffoni, De Angelis, Erba, Fiori, Majorino, Merini, Neri, Pontiggia, Risi, Rossi, Santagostini, Villa, ai quali va aggiunta la schiera dei più giovani poeti. Se la “porosità del mondo” accentuata da un “predicato di frugalità” che interiorizza i meccanismi del pensiero è una nota senz’altro riscontrabile sin dai primi libri di Cucchi, fa bene Villalta a porre l’accento su un “itinerario formale, psichico e geografico” che si ricollega ad uno stato interiore di crisi, a “sbalzi di corrente e mutamenti” non ascritti ad una forma sperimentale, né legati alla tradizione lirica, ma alla “necessità umana e sociale” della parola poetica. Scrive Villalta: “La poesia è proprio quel ponte tra la memoria e l’impreve dibile, quella coscienza della nostra estrema fragilità e allo stesso tempo il gesto concreto, la voce che chiama e mentre chiama fa di questa fragilità una forza”.
Poesia che attinge a più tempi, ad un altrove circolare, impermanente. Galaverni propone una versione incardinata sulla postura anti-retorica e anti-eloquente, con aggettivi specificativi della poesia: diminutiva, colloquiale, minima, dimessa, apparentemente distratta, dotata di chimica e magia discorsiva. Una poesia spesso irrelata, piena di “costella zioni puntiformi”. Precisa Galaverni: “È l’eclissi dell’Io, come Rimbaud ha insegnato una volta per tutte a Cucchi e a noi, a consentire il riconoscimento dell’al tro in se stessi e di se stessi nell’al tro” (il principio della reversibilità). Cucchi percepisce di volta in volta l’alternarsi argomentativo e fa proprie le immagini nella frammentazione episodica e nella meditazione misterica (dove hanno un’importanza basilare gli oggetti). Un altrove dove l’esi stere non cessa di dare segnali, dove i fili della visione si allacciano ad un catalogo di “lonta nanze mute”. Il viaggio nel tempo percorre strade riconoscibili e torna negli ambienti circoscritti, pertinenti al disigillato teatro della mente. Si pensi ai bei versi di Sentiero di mare: “Qui, nell’amabile città, credevo / che fosse solo un’invenzione letteraria / o una specie di fola. / Poi d’improvviso al mare mi si spalanca il cielo, / mi si apre, delicata la stradina / in salita nell’argento / e non so, stranito, se sentirmi / lupo mannaro o infedele / miracolato”.