La casa solitaria, uno dei libri più conosciuti di Ivo Andric e che fu dato alle stampe per la prima volta nel 1975, è stato ripubblicato quest’anno da Crocetti con l’impeccabile traduzione di Alice Parmeggiani. Il Premio Nobel per la Letteratura del 1961, nato nella Bosnia centrale da una famiglia di artigiani, scrisse questi racconti dalla sua abitazione di Sarajevo nelle “notti senza sogni”, come riferì. Sul fondale di un oceano luminoso i personaggi lo hanno visitato comparendo improvvisamente sulla scena, riflettendo e conversando con l’autore che li ha accolti a braccia aperte affinché si confessassero. Tra questi Bonva-pascià, rampollo dell’alta aristocrazia francese che tradì il suo popolo e si mise al servizio della corte viennese per passare successivamente all’Islam e salvare la pelle, in quanto i musulmani non potevano essere consegnati ad uno Stato cristiano per l’esecu zione della condanna. Una testa folle, acuta. Un uomo inaffidabile, lunatico e spietato, viene descritto nei minimi dettagli, come tutti gli altri protagonisti.
Alì-pascià, sultano di Mostar, una volta caduto in disgrazia, fu rinchiuso nella torre cittadina insieme ai figli. Deriso, lo misero in groppa ad un asino e ad un mulo. Invecchiato, imbolsito, la brama di sopravvivenza sembrò aleggiare dopo la morte di questo zar che non voleva cedere all’e videnza della sconfitta. L’e sigenza è di assegnare l’ag gettivo esatto nell’interpre tazione conoscitiva dell’uomo e della donna, nella lunga trama di riferimenti e nella condizione primaria della casa ricca di “materia sensibile”.
Andric, in effetti, è un attento osservatore del carattere dei suoi figuranti, inseguiti e ritratti nel momento di maggior sofferenza. Il barone Dron si profila come un incorreggibile mentitore che manipola il fondamento di ogni verità; il genovese, un collezionidi sta di oggetti che ha lasciato la professione di insegnante per vivere come un eremita; la prostituta ama il suo violentatore ma ha paura che finirà per ucciderlo; Zuja è una donna con il fazzoletto in testa che si è presa cura dei figli e dei nipoti di una famiglia di ricchi possidenti.
Dietro la sua benevolenza, però, custodisce un terribile segreto. Ha scritto Andric sulla sua attività di scrittore: “In realtà non ho mai scritto libri, ma testi slegati e sparpagliati che col tempo, con maggiore o minore logica, si sono connessi fra loro fino a formare romanzi o raccolte di racconti”.
Un cacciatore di atteggiamenti, di reazioni, ossessioni, manie. Uno narratore capace di mettere in luce la bramosia dei potenti, l’animosità del male più che del bene intrecciando i ritmi della storia con le vicende personali e creando un insieme epico che scaturisce dalla rivelazione di ciò che è stato testimoniato. La stessa vita di Ivo Andric risultò un tumulto di situazioni progressive specie durante il secondo conflitto mondiale. Attivista da studente, ben presto iniziò la carriera diplomatica. Nel 1939 venne nominato Ministro del Regno di Jugoslavia a Berlino e consegnò le credenziali a Hitler. Nel 1941 le sue dimissioni non furono accettate e assistette impassibile alla firma del Triplice Patto. Nella Serbia e nella Belgrado occupate dai fascisti si rifiutò di firmare l’appello che condannava la resistenza serba. L’ansia, il pericolo,
la solitudine e soprattutto i risvolti psicologici sono gli assi portanti dell’opera omnia che non manca di riferimenti simbolisti sul destino umano. Il linguaggio di Andric è essenziale, scarno, estremamente attivo nel dare il giusto peso alle parole, come succede sempre nell’evo cazione che privilegia l’istinto vitale dell’uomo. Il serbo è ricordato anche perché nei suoi libri ha attraversato la modernità imperniando la letteratura sulla lingua, le etnie e le religioni. Il tutto in un pezzo di terra che ha subito fino a poco tempo fa innumerevoli mutazioni geografiche nel confine tra l’Oriente e l’Occi dente, tra mondi eterogenei che si sono incontrati e scontrati.