Se è vero che negli ultimi anni è aumentata l’attenzione per quello che mangiamo, è vero pure che questa attenzione è in gran parte rivolta alla qualità e alla sicurezza del cibo, mentre ancora precaria è la consapevolezza delle numerose componenti etiche, politiche, economiche, giuridiche, ecologiche del mondo alimentare. Già questo è comunque un grosso passo in avanti.Tra tanti istant book, più o meno effimeri, di diete e di cucina, di goloserie e ricercatezze radical chic, di chef, naturisti, salutisti ed esteti del cibo si incontrano anche lavori ispirati al giusto mezzo aristotelico, dove nulla di quello che è mangiabile è demonizzato e nessun allarme terroristico viene lanciato in nome degli omega tre o contro i carboidrati. E’ sufficiente “mangiare del cibo. Non troppo. Soprattutto verdure” per salvaguardare quel bene prezioso che è la salute senza ricorrere a chissà quali rinunce o sacrifici. Questo sostiene il saggista statunitense Michael Pollan che nel suo “Manuale dell’onnivoro” (Adelphi, 2024) normalizza la questione alimentare, sottraendola al clamore della cronaca e allo specialismo degli esperti e riportandola alla saggezza di quella tradizione in cui non c’erano gli scienziati ma mamme e nonne. La dieta occidentale è ridimensionata con il suo consumo eccessivo di carni e di zuccheri. Le indicazioni ci sono ma non sono fatte oggetto di sacra adorazione. Le trasgressioni concesse. Lo scopo della salute convive con il piacere e il gusto. La scienza dell’alimentazione invitata a dire la sua ma non messa sull’altare. La tradizione, con cui ci si è nutriti e curati con il cibo per millenni, chiamata a bilanciare il consumo di cibo eccessivamente trasformato dall’industria alimentare. I farmaci della salute messi in discussione come le multinazionali che li propongono. Come la pubblicità alimentare.
Un passo ulteriore, più decisamente culturale e politico, è quello compiuto dal filosofo Julian Baggini che in “Pensa come mangi. Una filosofia globale del cibo” (Touring club italiano, 2024) sposta la questione del mangiare dalla salute all’intero sistema o mondo alimentare. L’uso del concetto di mondo alimentare ridisegna la nostra visione in modo impercettibile ma determinante. Il sistema è qualcosa di esterno, a cui talvolta partecipiamo come consumatori e lavoratori. Come individui che mangiano tutti i giorni, siamo invece sempre all’interno del mondo alimentare … e se chiedere come dovrebbe funzionare il sistema alimentare suona tecnocratico, pensare a come andrebbe gestito il mondo alimentare mette in primo piano l’importanza etica ed esistenziale del modo in cui ci nutriamo. Dobbiamo pensare ai valori oltre che ai processi”. Intanto, al di là del gran parlare che si fa del cibo, ne sappiamo ancora molto poco proprio sui processi globali che lo riguardano. Che ne sappiamo ad esempio dell’agricoltura dei masai dell’Africa orientale e della pesca degli inuit dell’artico? O delle persone che nei paesi a basso reddito “lavorano senza sosta in cambio di salari da fame”? O dei prodotti che si smerciano al mercato di Wuhan, da cui sarebbe partita - a detta di molti - l’epidemia di covid? Ignoriamo praticamente le traiettorie che fa il cibo per arrivare sulle nostre tavole, lo sfruttamento umano oggettivato in una prestazione di lavoro, le alterazioni che subisce una risorsa nel corso della lunghissima, e spesso non ricostruibile, filiera. Ignoriamo, soprattutto, l’impatto ambientale (consumo di acqua e di terra, emissioni di gas, smaltimento di imballaggi) che una certa attività comporta. Prima di mangiare dovremmo sapere, sapere come mangiamo. La conoscenza del mondo alimentare (l’interdipendenza di tutte queste componenti) è la premessa secondo Baggini per promuovere una filosofia globale del cibo, cioè delle pratiche consapevoli che in tutto il mondo possono dare un beneficio non solo alle bocche ma anche al cuore e alle menti. E non solo alle bocche, il cuore e le menti dell’Occidente capitalistico, ma di tutto il pianeta. Questo è almeno l’obiettivo di breve e medio termine, visto che l’idea di una rivoluzione del modello di sviluppo, per quanto auspicabile nel lungo periodo, è inimmaginabile nell’immediato futuro. In attesa di quella rivoluzione culturale e rumorosa che auspicava nella sua “Primavera silenziosa” Rachel Carson per contrastare “l’influsso maligno” dell’uso dei pesticidi sulla fauna e la flora, meglio governare, senza accanimento ideologico, le contraddizioni del sistema come quella che riguarda la mortalità legata al cibo: dovuta sia al suo eccesso che al suo difetto, al sovrappeso per una parte del mondo e alla malnutrizione per l’altra. E per governare l’ecosistema alimentare è necessario osservare alcune regole o pratiche (eterogeneità, sostenibilità, circolarità, olismo, intraprendenza, convivialità) che definiscono un nuovo umanesimo, un modo diverso per l’uomo di stare al mondo. La prima è quella della pluralità “dei modi di coltivare, cacciare, preparare e mangiare il cibo”. Bisogna uscire dalla convinzione che il proprio punto di vista vegano, biologico, tecnologico, tradizionale sia quello corretto per integrare in una visione d’insieme gli elementi positivi dei diversi approcci. La seconda prevede che “un sistema è sostenibile se soddisfa i bisogni attuali senza compromettere quelli futuri”. La terza consiste nel dare alla natura il suo tempo, nel restituirle i suoi cicli, la possibilità di riprendersi senza stressarla e forzarla con culture intensive. La quarta è l’olismo, cioè la consapevolezza della “dipendenza reciproca degli attori del mondo alimentare… Questo significa che se occorre riparare il sistema alimentare, l’intervento non può essere limitato a singoli individui che scelgono di fare la spesa diversamente, e nemmeno ad aziende che optano pratiche migliori … soltanto le iniziative nazionali e transnazionali hanno il potere di fare la differenza”. Quindi l’intraprendenza che esprime una cauta fiducia nella tecnologia e nella sua capacità di “guidarci verso nuove soluzioni e aiutarci a preservare gli aspetti migliori di quelle vecchie”. Infine, forse non una regola, ma un ottimo rituale condiviso da molte culture tradizionali e trascurato dalla modernità: cibo non significa solo ciò che mangio ma anche come mangio.
Seguendo le vie del cibo, il lungo e complesso processo che va dalla creazione al consumo, ci si imbatte in attività identitarie, simboliche e comunitarie non irrilevanti in quella vasta rete di relazioni, di contatti e di convergenze che abbiamo chiamato “mondo alimentare”. Se è vero, seguendo Marx, che l’uomo è ciò che mangia, allora è vero che la filosofia, come leggiamo in un altro lavoro di Baggini (Il maiale che vuole essere mangiato), “non riguarda solo gli addetti ai lavori, ma nasce dal nostro quotidiano e ci coinvolge tutti”. Riecheggiano le parole di Jacques Derrida che, in un saggio di molti anni fa (Il faut bien manger) prese in prestito l’attività del mangiare come metafora dell’ospitalità in alternativa alla logica incorporativa, sacrificale e carnivora del soggetto occidentale: “Si deve ben mangiare non vuol dire prendere e comprendere in sé, ma apprendere e dare da mangiare, apprendere a dar da mangiare all’altro. Non si mangia mai da soli, ecco la regola del ‘si deve mangiar bene’. E’ una legge dell’ospitalità infinita. E tutte le differenze, le rotture, le guerre hanno in palio questo mangiare bene, oggi più che mai”. E’ questo che intende Baggini quando ci ricorda di non considerare solo i processi, ma anche i valori, di fare cioè del cibo una questione etica in senso lato che richiama tutti (produttori, lavoratori, consumatori) a una responsabilità verso l’altro.