Parlare di Alexis de Tocqueville (1805-1859) significa discutere di un classico del pensiero politico, in primo luogo, e di una pietra miliare della storia dell’idea liberale poi. Si tratta di un autore ormai certamente molto studiato, sul quale è però sempre bene tornare perché racchiude molte riflessioni ancora valide. L’indimenticato Nicola Matteucci, che ne ha curato le opere per le edizioni UTET, ha chiarito molto bene la questione che il pensatore di origine normanna aveva più a cuore: la passione della libertà. Se la democrazia, scriveva lo storico del pensiero politico bolognese, era per Tocqueville un fatto provvidenziale, la libertà era, da un lato, un «ideale della vita morale dell’uomo», e d’altro canto essa rimaneva pure un compito nelle mani della responsabilità degli uomini: «un compito rivolto verso il futuro, nella piena, ma fredda e disincantata, accettazione del nuovo».
Contrariamente a quanto alcuni pensano, Tocqueville non riteneva la libertà un privilegio adatto solo agli aristocratici di sangue o status. Al contrario, si trattava, per lui, di un bene morale che va conquistato da tutti. In questo senso, dunque, è più corretto definire la libertà come un ideale aristocratico, intendendo con ciò il fatto che essa necessita di una certa qualità interiore per poter essere adeguatamente sostenuta e difesa.