«Nell’arredo urbano è fondamentale, a mio avviso, l’intervento artistico. Ciò richiede un lavoro di integrazione tra architetto e scultore.» Parole di Arnaldo Pomodoro, che accorpava alla perfezione in sé le due figure demiurgiche. Ci lascia a 99 anni, sfiorando il secolo e dimostrando che l’arco temporale della creatività più significativa dell’homo faber può sfidare anche i limiti biologici. In particolare, fa specie e ammirazione constatare che è sopravvissuto abbondantemente allo spirito dei “nuovi barbari dell’anno nove”, come Umberto Eco definì quelli del ’77, venuti quasi un decennio dopo il ’60, colpevoli, fra le altre cose, di avere vandalizzato le sue installazioni di Piazza Verdi, a Bologna, dinanzi al Teatro Comunale, durante i giorni di violenza seguiti alla morte di Francesco Lorusso e terminati con la fatuità del Riflusso.
Arnaldo Pomodoro, classe 1926, quindi all’epoca poco più che cinquantenne, era già portatore di un post-moderno che si avviava a diventare classico della contemporaneità. Insieme, naturalmente al fratello minore Giò. Quasi che Pomodoro non sia un cognome bensì un marchio espressivo come quello della famiglia Strauss.
Sta di fatto che i suoi studi da geometra lo pongono dall’inizio di fronte al rapporto fra le capacità metamorfiche esercitabili dalla mente umana sulla materia grezza. Il suo sangue romagnolo (nacque a Morciano di Romagna) indirizza perciò verso la scultura intesa quale prolungamento manuale della creazione. Il cui risultato è “l’opera”. Da contemplarsi e non bramare con avidità economica, ossia per sfruttarla in termini di investimento. Perfino all’inizio del XXI secolo, nel 2002, Arnaldo Pomodoro dichiarò «Tutto è stato mercificato. La gente con i soldi vuole comprare l'arte mentre l’arte non si compra».
Vi si sente tutta l’eco dei suoi trascorsi. Soprattutto l’adesione, con Lucio Fontana, al gruppo degli informali di “Continuità”. Una fase nella quale lui affina la propria impronta scultorea, legando il mastodontico al minimale. Realizzando il versante artistico di una teoria mai completata da Einstein nella fisica: la specularità di macro e microuniverso.
Pomodoro, inoltre, credeva nell’impegno propedeutico. Anziché arroccarsi in una genialità esclusiva ed esclusivista, scese nell’agone accademico. Insegnò a Berkeley, a Stanford e presiedette dal 1990 il “Centro TAM” (Trattamento Artistico dei Metalli) per la formazione dei giovani, istituito in collaborazione con il Comune di Pietrarubbia nel Montefeltro, dove visse nell’infanzia.
Nel comunicato stampa della Fondazione da lui creata si legge: «Il Maestro lascia un’eredità immensa, non solo per la forza della sua opera, riconosciuta a livello internazionale, ma anche per la coerenza e l’intensità del suo pensiero, capace di guardare al futuro con instancabile energia creativa».
Non è una frase di circostanza. Riflette il senso di una presenza, quella di Arnaldo Pomodoro, perduta nella carne ma ben durevole nei suoi capolavori disseminati per il mondo.