Con la dipartita di Goffredo Fofi si spegne un’altra stella nel firmamento sempre più esiguo della cultura italiana contemporanea. Quella analitica, versatile, perennemente aggiornata, non scevra dall’ideologia, quando questa si lega per vie inscindibili all’interpretazione del reale e alla fenomenologia dei mutamenti sociali.
Transfuga precoce dalla natia Gubbio alla Sicilia di Danilo Dolci, Fofi si rivela già diciottenne in controtendenza con l’egemonia industrial-mediatica del nord. Nel microcosmo pacifista e gandhiano di una Sicania che lotta per affrancarsi dallo stigma della mafia, lui elabora la propria visione della modernità. Da cui scaturiranno la collaborazione alla rivista cult del cinema “Positif”, con relativo soggiorno parigino, la fondazione dei “Quaderni Piacentini”, insieme a Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, e poi di “Ombre Rosse”, che agglomera sul nascere l’alleanza studenti-operai a Torino e precede l’autunno caldo e i fatti di Piazza Statuto.
Nel tempo, la configurazione di Fofi acquisisce una rilevanza che ancora oggi, in epoca di sapere permanente, di flusso digitale ininterrotto e accesso dilagante, serba un’impronta non riproducibile.
«… per uno come me, e magari più intelligente e meno sconcertato di me» afferma, «la cultura appare oggi come un campo di battaglia ancora possibile, ma fuori da ogni illusione di vittoria e partendo dalla constatazione, per cominciare, di quanto sia stato e sia facile per il potere di servirsi della cultura – che non è mai univoca anche se oggi si è riusciti a farla sembrare tale – cambiando di segno alla sua storia e illudendo milioni di persone che di cultura vivono di una sua forza ancora liberatoria, non evasiva e perfino necessaria. Facendone facilmente dei complici nella manipolazione, nel dominio. È un lavoro, ancora una volta, di cui devono farsi carico minoranze salde nelle loro persuasioni, convinte della necessità e dell’urgenza dell’azione, nauseate dalle compromissioni universitarie e affini, dalla lotofaga insipienza dei predicanti e idealizzanti, degli accettanti.»
Nel 1998 a San Marco in Lamis, cuore del Gargano, si tiene un convegno sul mezzo secolo di Tex. Fofi vi partecipa molto più che da testimoniale. Questa è la terra di Andrea Pazienza, l’erede apicale del grande fumetto italiano. E chi scrive, sul podio dei relatori accanto a Fofi si trova a ripercorrere una stagione della creatività disegnata, trovando la conferma dell’apporto che vi ha dato lui, pur non essendo ne un illustratore né uno sceneggiatore. Certo. Perché ha il vantaggio di una visione a trecentosessanta gradi che travalica i confini dei generi letterari e delle forme di arte e comunicazione.
«Grande è il disordine sotto il cielo, la situazione è confusa e la crisi avanza, e non riguarda soltanto l’economia; è forse, prima di tutto, una crisi di modelli, di idee, di morali. Di “cultura”, in senso antropologico e in senso cognitivo. In un paese che non ha vissuto l’esperienza della Riforma e che non ha fatto la Rivoluzione borghese, che ha alle spalle una tradizione municipale piuttosto che statale, che va dalle Alpi al mar d’Africa e che si apre verso Oriente quanto verso Occidente, ma che ha subito nel Novecento l’impatto micidiale dell’american way of life, le tradizioni sono deboli e le leggi incerte – tante e contraddittorie.»
Ben gli calza questo suo messaggio, che ha il suono di un lascito morale: «Da dove partire, da dove ricominciare? Il discorso è aperto, una volta che ci si sia liberati dalle menzogne e illusioni dell’epoca, e riguarda, a mio parere, anzitutto il terreno della scuola, dell’educazione. Di lì si può partire, anche in pochi, convinti che tra maestri e professori (perfino, forse, in qualche angolo appartato dell’università) ci sia ancora qualcuna o qualcuno che crede nelle possibilità liberatorie della conoscenza, della cultura, di una trasmissione, e soprattutto di un metodo di lavoro che dia all’educazione, in senso socratico, la necessità e la dignità che le si è data in passato, da parte anche allora di minoranze non-accettanti.»