Con la scomparsa di Ornella Vanoni, a ridosso di quella delle gemelle Kessler, si accelera la dissolvenza del passato prossimo italiano, la sola epoca di autentico lustro per un Paese in decadenza ormai da secoli, dopo i fasti dell’impero romano. Sentire l’eco dal vuoto di “Senza fine” ha il sapore di un’illusione distopica retrospettiva: nessuna eternità in serbo per chi l’avrebbe meritata. La musica leggera attuale non ha i presupposti per memorie indelebili. I motivetti più parlati, o meglio blaterati da i suoi esponenti si frantumano nei pixel digitali. Gli interpreti non hanno consistenza umana, sono agglomerati di tatuaggi e piercing. Talvolta portatrici e portatori di vissuti tossici e tragedie che virano al melodramma.
Nulla in comune con icone quali Ornella Vanoni. Il suo è un retaggio di vita vera, non virtuale. Fatto essenzialmente di perfezionismo espressivo e di amori, quanti amori. Ad esempio Strehler: «Vivevo al Piccolo Teatri, dormivo con Giorgio. È stato l’uomo che mi ha amata di più. [...] L’ho lasciato, mi faceva soffrire, aveva vizi che non potevo sopportare. Però mi ha fatto scoprire la cultura. Lui parlava e io stavo zitta: avevo solo da imparare. Ha intuito che potevo cantare, mi ha fatto scrivere le canzoni della mala». O Gino Paoli: «Lui è un gatto. Non so, non lo vedevo per tre giorni, poi scendevo ed era seduto sui gradini del portone. Il suo primo figlio era il mio ma poi l’ho perso». E sulla sua più che rivale equivalente di altra conformazione melodica, Mina: «Escludo che Mina riappaia, perché sarebbe un errore e lei di errori non ne fa, in questo senso. Mina è un mito perché la possiamo solo immaginare. Non si sa cos'è più. È un ricordo, e questa è la sua forza. Se si presentasse certo, sarebbe un successo pazzesco, la gente si ammazzerebbe per avere un biglietto. Però lei perderebbe questo spessore. Insomma Mina non si deve vedere, sennò non è un mito. E lei lo sa molto bene. I miti o muoiono giovani o spariscono».
Paradossale, e anche un po’ triste, che non si sia avverato un suo desiderio: «Non voglio morire troppo tardi, troppo vecchia, non voglio. Io voglio vivere finché io do alla vita qualcosa e la vita dà qualcosa a me. Il giorno in cui la vita non mi darà più nulla e viceversa io non vorrò più vivere. Allora deciderò cosa fare».
Ornella Vanoni non veniva dalla Garbatella o da Gratosoglio, per restare alla sua Milano, ma da una famiglia di industriali farmaceutici. Un retroterra altoborghese che non aveva niente in comune con la “ligéra”, la vecchia mala meneghina. Il suo approdo alla grande canzone italiana passa per una formazione teatrale: ««Sono stata una ragazza inventata. Inventata dagli altri. Di mio avrei voluto fare l'estetista, niente di più. Avevo l'acne e avrei voluto curare la pelle, la mia e quella degli altri. Ero andata a studiare Lingue in Inghilterra, in Svizzera, in Francia e quando tornai a Milano non sapevo che cosa fare. Fu un'amica di mia madre a lanciare l’idea: “Hai una bella voce, perché non fai l'attrice?”. Mi iscrissi alla scuola di recitazione del Piccolo. Il giorno degli esami d'ammissione ero terrorizzata, tanto da sentirmi male. Con la V di Vanoni venni chiamata per ultima, sapevo che nella commissione c'erano grossi nomi, Strehler, Paolo Grassi, Sarah Ferrati. Quando mi hanno chiamata, avevo il cuore a mille. Recitai un pezzo dell'Elettra, ero follemente emozionata, chiedevo scusa a tutti, mi interrompevo [...] A un certo punto ho sentito una voce femminile: “Attenzione, qui c’è qualcosa”. Era della Ferrati. Mi presero. Dopo un anno divenni la compagna di Strehler, era il ‘55».
Di lì in poi, da un successo all’altro, da un uomo all’altro, sul filo di un immaginario niente affatto nazional-popolare. Ornella Vanoni non era un’ugola da Disco per l’estate, Cantagiro e simili. Le sue canzoni erano letteratura in note, firmate per lei da autori che sintetizzavano nei minuti dei microsolchi le ampiezze di romanzi.

