Martedì 16 settembre 2025, ore 18:58

Lutto nel cinema

Addio all'uomo che sussurrava ai cavalli

di ENZO VERRENGIA

«La carne appassirà come l’erba.» Antico Testamento, Isaia 40:6-8. Ma Robert Redford non era solo l’insuperabile fisicità della sua presenza sul grande schermo. In lui si assommavano talento, determinazione, impegno, capacità espressive che andavano ben oltre le esigenze attoriali di volta in volta richieste. E idee che divennero grandi film, quando passò dietro la macchina da presa. Tutto concentrato in quella faccia da americano genuino come la torta di mele del Texas, da eterno ragazzo, sbarazzino o incupito, sempre disposto alla meraviglia di un mondo che gli si apriva di continuo alla scoperta. Verrebbe in mente la celebre frase che Frank Baum fa esclamare a Dorothy rivolta al suo cagnolino quando attraversano il confine tra realtà e fantasia: «Toto, non siamo più nel Kansas».

Robert Redford porta via con sé nell’eterno oblio personaggi indimenticabili. Il Bubber Reeves de “La caccia”, capolavoro di Arthur Penn, del 1966. Paul Bratter, il giovane sposino alle prese con l’esuberanza della mogliettina in “A piedi nudi nel parco”, che Gene Saks seppe adattare alla perfezione dalla commedia di Neil Simon nel 1967. Sundance Kid in “Butch Cassidy”, elegia dell’amicizia che nel 1969 segnò una svolta per il western, ad opera di George Roy Hill. L’elenco completo è emblematico di un cinema che resisteva con i canoni della Grande Hollywood, ridicolizzando le pellicole dei “giovani autori” che avevano un solo argomento: la droga con relativi incubi lisergici. Mentre Redford rivelava al mondo le trame occulte della CIA in “I tre giorni del Condor” (1975), dal romanzo di James Grady, diretto da Sydney Pollack. E aveva già alle spalle “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”, “La stangata” e “Il Grande Gatsby”, la migliore versione per le sale del classico di Francis Scott Fitzgerald. Soprattutto “Tutti gli uomini del Presidente” di Alan J. Pakula, del 1976. Redford ne parlò in questi termini: «Un giornalismo valido e accurato difende la nostra democrazia. È una delle armi più efficaci a nostra disposizione per contenere gli affamati di potere. Ho sempre detto che “Tutti gli uomini del presidente” è un film violento. Non vengono sparati colpi, ma le parole sono usate come se fossero armi». Soggetti connaturati a quegli Stati Uniti dai quali, il suo personaggio Condor afferma che non saprebbe mai vivere lontano.

«Ho sempre apprezzato la diversità.Credo che la cultura americana sia fondata sulla diversità e per questo è ancora viva e stimolante. Sono cresciuto in quella che potremmo definire una parte sfortunata di Los Angeles, dove non c’era molto da fare se non vivere le differenze, andare in posti diversi e sentire storie diverse». In quella “parte sfortunata di Los Angeles”, da giovane Redford rischiò di annegare nell’alcol. Dal 1957 al 1958, orfano, sbandato e privo di orizzonti, cercò il mortale abbraccio delle alte gradazioni. Ma seppe emendarsene, partire per New York, studiare arte e darsi dapprima alla sceneggiatura, poi alla recitazione. Ebbe anche un interludio parigino, del quale diede poi un’irriverente testimonianza: «I francesi sono fantastici, ma sanno come farti sentire un idiota». Suo merito encomiabile è la creazione, nel 1981, insieme a Sydney Pollack, del Sundance Institute e del Sundance Cinema Festival. Due enti ubicati nello Utah, dove l’attore si era stabilito e dove si è spento. Il primo dedito al finanziamento iniziale di film dalle forti implicazioni culturali. I secondo a valorizzare con una rassegna sempre più prestigiosa la nuova cinematografia d’autore. Metodi efficacissimi per strappare il controllo della creatività dagli artigli dei ragionieri delle majors. Un universo da cui Robert Redford aveva imparato difendersi: «Considero l’andare a Hollywood come l'andare dietro le linee nemiche. Ti fai paracadutare, prepari l’esplosione, e poi scappi prima che deflagri».

 

( 16 settembre 2025 )

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