Tra boom economico e crisi esistenziali, confronti con il consumismo imperante e tendenze spirituali, rumorose provocazioni e silenziose meditazioni, aperture internazionali e confronti tra movimenti diversi, Milano (negli anni Sessanta) vive una stagione irripetibile dell’arte del Novecento”. Cosi viene definita dal punto di vista culturale ed artistico la metropoli lombarda da Simona Bartolena, all’interno della mostra da lei curata “Milano anni ‘60. Da Lucio Fontana a Piero Manzoni, da Enrico Baj a Bruno Munari”, allestita a Lecco presso il Palazzo delle Paure dal 13 luglio al 24 novembre 2024. Ultima tappa del ciclo espositivo di Percorsi nel Novecento, promosso da ViDi Cultural in collaborazione con il Comune di Lecco, che ha visto aumentare l’affluenza dei visitatori al museo cittadino in modo esponenziale di mostra in mostra, tanto da aver contribuito a farlo segnalare tra i luoghi in grado di ospitare grandi esposizioni. La mostra, dedicata all’arte degli anni Sessanta, ha voluto stringere il focus esclusivamente sulla città di Milano per la ricchezza di esperienze in essa ravvisabili, capaci di riempire da soli lo spazio espositivo e narrativo del museo, vista la vivacità artistica del capoluogo lombardo in un periodo di grande rinascita post bellica e di sviluppo economico, in cui si diffondono linguaggi più spinti sulla percezione, sulla concettualità e sul segno minimale, mentre a Roma cresce la Pop Art della Scuola di Piazza del Popolo e a Torino nasce l’Arte povera.
Sono anni in cui a Milano riaprono ufficialmente i Musei dopo le chiusure dovute alla guerra e rifioriscono nuovi spazi espositivi e gallerie, grazie anche alle iniziative di promotori culturali e mercanti che sanno dar spazio ai giovani artisti emergenti.
Teatro di un costante germogliare di idee, di ricerche, movimenti e situazioni aperte al contesto internazionale è il quartiere di Brera con i suoi locali, i suoi bar, come il Genis (all’angolo con via Pontaccio), la trattoria delle sorelle Pirovano (in via Fiori Chiari), la Vigna Piemontesa (meglio nota come il Fiorino), la Crota piemontese (in via Pontaccio) e il celebre Jamaica, in via Brera, luoghi in cui si incontrano i grandi maestri dell’Accademia, i giovani pittori, gli intellettuali, i giornalisti, i grafici e i fotografici che vogliono contribuire al cambiamento della vita culturale italiana. In questo contesto socio culturale aperto a tutti si ritrovano non solo uomini di cultura “ma anche gente del quartiere, vecchi e accaniti bevitori e giocatori di scopone scientifico. La saggezza popolare si mescola con l’avanguardia culturale, in uno straordinario e fecondo abbraccio”, come dichiara Simona Bartolena e ne nasce una nuova visione dell’arte.
L’arte informale viene presto lasciata da parte ed in un contesto in cui innovazione tecnica e progresso sono protagonisti indiscussi, nascono linguaggi innovativi legati alla tecnologia e allo sviluppo industriale cittadino, che si manifestano in esperienze di gruppo o individuali.
L’allestimento lecchese attraverso sessanta opere di autori quali Lucio Fontana, Piero Manzoni, Enrico Baj, Bruno Munari, Arturo Vermi, Ugo La Pietra, Gianni Colombo, Grazia Varisco e molti altri, offre al visitatore la possibilità di entrare a contatto con i nuovi linguaggi artistici e le ricerche rivoluzionarie di questo momento storico artistico. L’allestimento si apre con Lucio Fontana, protagonista indiscusso e padre di questa stagione milanese, nonché fondatore dello Spazialismo (esperienza che si conclude nel 1958 con la firma del Manifesto insieme a Giorgio Kaisserlian, Beniamino Joppolo, e Milena Milani), a cui si ispirano anche giovani artisti come Gianni Dova, Roberto Crippa, Cesare Pavarelli, le cui opere affiancate a quelle di Fontana completano il primo spazio della mostra. Fontana è per i giovani pittori non solo un modello ma anche un mecenate. Egli cerca di superare i limiti bidimensionali della tela per creare uno spazio al tempo stesso fisico e concettuale. I suoi tagli trattano la tela non più come superficie ma come materia, il suo gesto nel realizzarli è misurato, controllato, senza rabbia secondo la tendenza diffusa in quel decennio che cerca di eliminare il gesto veemente e istintivo in favore di un approccio nuovo, più equilibrato e distaccato, nella direzione di un azzeramento linguistico, in cerca dell’Assoluto. Parallelamente a Milano viene fondato il Movimento Arte Nucleare ad opera di Enrico Baj e Sergio Dangelo (a cui l’anno successivo si aggiunge anche Joe Colombo), che pur partendo dalle posizioni spazialiste si spinge verso altre direzioni: alle sue radici vi è una profonda polemica antiaccademica e antiastrattista e un’attenzione declamata per le conquiste della scienza legate al tema dell’energia atomica, come fonte di progresso, ma anche come arma micidiale. Baj in uno dei suoi scritti dirà “Ci sentivamo artisti d’un epoca in cui l’indagine atomica e nucleare spalancava all’uomo nuovi infiniti orizzonti: artisti, quindi, più che nucleari. D’una «epoca nucleare»? Poi fondamentale la considerazione che la nostra lotta, la nostra presa di posizione, era in relazione al mondo artistico esistente e alle teorie in detto mondo circolanti, soprattutto antiastratta. Antiastratta alla base, non si rifiutavano cioè solo l’astrattismo geometrico, ma l’astrazione in se stessa “. A differenza di Fontana che si sposta verso forme di arte concettuale essi non rifiutano la pittura e non abbandonano la figurazione, ma cercano di rinnovarne il linguaggio spostandosi verso una visione surreale, immaginando universi postatomici, popolati da esseri strani dall’aspetto alieno, sperimentando continuamente nuove tecniche (come il tachisme o il frottage), mentre provocano e giocano con le immagini, come dimostrano le figure di Baj, che poi declina nei suoi “Generali” o “Dame”, così come le composizioni magiche costruite su forme ellissoidali di natura simbolista di Dangelo, di cui nella seconda sala dell’esposizione ne vengono proposti degli esempi.
La pittura in senso tradizionale appare in crisi e a dimostrarlo vi è nei medesimi anni la sperimentazione di Piero Manzoni (padre dell’arte concettuale) con i suoi A-crome (tele totalmente bianche fatte di tessuto irrigidito dal caolino), dove il colore è praticamente assente perché, come dichiara Enrico Castellani, “Il bisogno di assoluto che ci anima ci vieta i mezzi propri della pittura”. Saranno proprio Manzoni e Castellani, per un breve periodo affiancati anche da Bonalumi a fondare la rivista Azimut(T), luogo di dibattito, ricerca, sperimentazione e confronto a livello internazionale, seguita a a breve distanza dalla nascita della Galleria Azimut, animata dai medesimi intenti. Se le intenzioni di Manzoni e Castellani partono dal medesimo obiettivo di superare la gestualità che conservava il taglio della tela di Fontana, in realtà le loro opere assumono forme diverse: da un lato Castellani cerca una superficie che non ospiti segni, ma che sia essa stessa segno, ritmo, sequenza geometrica, esperienza percettiva, spazio in dialogo con la luce, come si può notare nella sua “Superficie bianca”, esposta in mostra; Manzoni invece, lungi dall’essere solo provocatorio, propone una ricerca complessa e sempre motivata che ha al centro il corpo come identità nella sua relazione con la sfera spirituale, a partire dalla nota scatoletta di ”Merda dell’artista” (esposta nella terza sala in una teca) fino alle “Uova firmate” e date da mangiare ai presenti.
Vicino a Castellani è anche la posizione di Bonalumi nelle cui prime opere presenta elementi estroflessi attaccati alla tela per poi passare, seguendo Fontana pur senza emularlo, alla tela estroflessa, a cui rimane fedele per tutta la vita, come si evince da diverse sue opere in esposizione.
Uno spazio autonomo dell’allestimento è dedicato al Gruppo T e ai suoi esponenti: Gianni Colombo noto per i suoi progetti di arte programmata, Davide Boriani, Grazia Varisco, le cui ricerche si concentrano sul rapporto tra tempo e spazio e l’idea di movimento dell’opera d’arte che ha come padre putativo Bruno Munari con le sue “Macchine inutili” e “Negativo-positivo” (opere presenti in mostra) con cui aveva anticipato la riflessione artistica sul tema del dinamismo e della percezione. Le opere di questo gruppo nascono dall’incontro dell’arte con la tecnologia, in continua mutazione e mutamento, tanto che a volte chiedono la partecipazione attiva del visitatore, mentre altre sono costituite da veri e propri ambienti in cui entrare. Tra i gruppi che in questi anni rifiutano la pittura tradizionale non bisogna dimenticare il Gruppo del Cenobio, la cui storia è di breve durata, e a cui è dedicata parte dell’ultima sezione della mostra. Nato ufficialmente nel 1962, dal nome dell’omonima Galleria milanese, vi fanno parte Agostino Ferrari, Ugo La Pietra, Ettore Sordini, Angelo Verga, Arturo Vermi, ognuno dei quali, pur salvando la pittura, ne propone una riflessione diversa, attribuendole un valore espressivo-scritturale. Il segno, interpretato in più modi, è l’elemento comune ai cinque artisti, un segno che non è mai istintivo, ma espressione antropologica, comunicazione, poesia scrittura, manifestazione dell’uomo e dello scorrere del tempo.
La mostra si conclude con la fine degli anni Sessanta che coincide a Milano con lo scoppio della bomba a Piazza Fontana nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura e pochi giorni dopo con la morte di Pinelli, ingiustamente accusato della strage. La fine di un’epoca è arrivata, la violenza prende il sopravvento e l’arte è chiamata ad assumere un ruolo volutamente e ideologicamente più impegnato. Un cambiamento questo che si era già fatto sentire nei pittori di fine decennio che si erano sentiti in dovere di assecondare il bisogno di un impegno politico e civile attraverso le loro opere. Nello specifico in mostra sono presenti alcune opere di Valerio Adami o opere di Umberto Mariani, con alcuni riferimenti anche alle pur rare manifestazioni di Pop Art milanese, venata di intellettualismo, in conflitto con buona parte degli aspetti delle proposte statunitensi.
Uno spazio a sé infine è dedicato alle Botteghe di Sesto, vere e proprie fucine di sperimentazioni artistiche sviluppate nelle periferia milanese di Sesto San Giovanni. Laboratori di idee e di prodotti frequentate da artisti noti a livello internazionale come Castellani, Bonalumi, Simeti, Scaccabarozzi, Vermi, che grazie alle loro sperimentazioni hanno contribuito a disegnare lo straordinario quadro artistico milanese di quegli anni.
Eliana Sormani