La questione salariale è una della maggiori emergenze del paese ma continua a restare ai margini del dibattito politico. Eppure i lavoratori italiani sono sempre più poveri. Tra il 2007 e il 2020, rivela il rapporto Istat su redditi, i salari netti sono diminuiti del 10%. È il risultato si scelte di politica fiscale che svantaggiano il lavoro dipendente. Confrontando le variazioni a prezzi costanti nelle componenti del costo del lavoro tra il 2007 (anno che precede la crisi economica) e il 2020 risulta che “i contributi sociali dei datori di lavoro sono diminuiti del 4%, anche per l'introduzione di misure di decontribuzione, mentre i contributi dei lavoratori sono rimasti sostanzialmente invariati e le imposte sul lavoro dipendente sono aumentate in media del 2%”.
Non solo. Nel 2020, rileva l'Istat, con i redditi netti da lavoro dipendente in calo del 5%, il valore medio del costo del lavoro, al lordo delle imposte e dei contributi sociali, è pari a 31.797 euro, il 4,3% in meno dell'anno precedente. La retribuzione netta a disposizione del lavoratore - si legge nel rapporto - è pari a 17.335 euro e costituisce poco più della metà del totale del costo del lavoro (54,5%). Abbiamo un enorme problema di cuneo fiscale: la differenza tra il costo sostenuto dal datore di lavoro e la retribuzione netta del lavoratore, è in media pari a 14.600 euro e sebbene si riduca del 5,1% rispetto al 2019 continua a superare il 45% del costo del lavoro (45,5%). I contributi sociali dei datori di lavoro costituiscono la componente più elevata (24,9%), il restante 20,6% risulta a carico dei lavoratori: il 13,9%, sotto forma di imposte dirette e il 6,7% di contributi sociali.
Non è un caso se in Italia, nel 2020, circa il 76% dei redditi lordi individuali (al netto dei contributi sociali) non supera i 30.000 euro annui: la metà dei redditi lordi individuali si colloca tra 10.001 e 30.000 euro annui, oltre un quarto è sotto i 10.001 euro e soltanto il 3,7% supera i 70.000 euro. La distribuzione dei redditi lordi individuali, si legge nel rapporto, “mostra nel 2020 un aumento consistente rispetto al 2019 della quota dei redditi della classe inferiore (meno di 10.000 euro) in particolare per i redditi da lavoro autonomo (41,7% nel 2020 rispetto al 35.5% nel 2019) e da lavoro dipendente (25% rispetto al 21,3% del 2019)”.
A lanciare l’allarme sulla questione salariale non è solo l’Istat. Anche l’Inapp sottolinea il problema, collegandolo alla “scarsa produttività” e alle “esigenze di riduzione dei costi da parte delle imprese”. Il nostro è l'unico Paese dell'Ocse, spiega l’Istituto, “in cui dal 1990 al 2020 il salario medio annuale è diminuito (-2,9%), mentre in Germania è cresciuto del 33,7% e in Francia del 31,1%”. Un divario progressivamente cresciuto, fino al -19,6% (2010-2020). Scarsa produttività e salari bassi, secondo l’Inapp, “hanno accentuato le disuguaglianze”. Secondo i dati del World Inequality Database (WID), nel periodo 1990-2021 in Italia, la quota di reddito totale detenuta dal 50% più povero della popolazione è in costante calo: dal 18,9% del 1990 al 16,6% del 2021. La quota detenuta dal top 1% è aumentata invece di circa il 60%. Tra le cause della bassa produttività, il mismatch delle competenze e la debolezza del tessuto produttivo che non le valorizza adeguatamente: l'Italia è l'unico Paese del G7 in cui la maggior parte dei laureati è impiegata in attività di routine. Risolvere questo problema, spiega l’Inapp, “potrebbe produrre una crescita della produttività del 10%”.
Ilaria Storti