Lunedì 6 maggio 2024, ore 20:19

Intervista

“Un cantiere di innovazioni legislative per la rigenerazione urbana”

Come siamo messi oggi con l’utilizzo del suolo in Italia e in Europa? E quali sono i maggiori problemi conseguenti?

Il suolo non se la passa bene. Occupa una nicchia inesplorata del diritto ambientale europeo, anche se proprio in questi giorni qualcosa si è mosso, con il voto parlamentare sulla direttiva che prende il nome di soil monitoring law. Un nome che è anche un programma, minimalista quanto a livello di ambizione: vi si afferma che lo stato di salute del suolo richiede strumenti coordinati di valutazione e misura, a livello di tutti gli Stati Membri, ed è certo che la conoscenza il più possibile precisa e univoca delle dimensioni del problema sia presupposto di ogni politica ambientale. Ma non si va oltre: la direttiva non stabilisce obiettivi, non indica obblighi per la protezione del suolo. Oggi sappiamo che il 61% dei suoli europei è in cattiva condizione di salute, percentuale che sale oltre il 90% per i suoli agricoli e per quelli urbani, secondo i dati del Centro Comune di Ricerca della CE: dovrebbe bastare per affermare che è già il momento di agire.

Perché c’è poca consapevolezza della questione?

Ci sono alcune ragioni ‘antropologiche’ che rendono il suolo distante dalla nostra sensibilità: il suolo, lì in basso, sfugge al nostro campo visivo, non si mangia, non si respira, non genera le ansie legate ad altri inquinamenti. E questo sebbene dal suolo ricaviamo il 95% del cibo che mangiamo. Poi c’è un problema di ‘statuto’ del suolo, che finora ha mortificato qualsiasi tentativo di sviluppare una responsabilità condivisa. Esso infatti è un bene immobile, per definizione soggetto all’esercizio della sovranità nazionale: fattore che pesa sulle decisioni della UE, ove vige il principio di sussidiarietà, per cui la tutela del suolo, a differenza di quella dell’acqua o dell’aria, va ricondotta alle competenze esclusive degli Stati Membri, che fino ad oggi sono stati poco aperti ad accogliere l’idea di suolo come generatore di servizi ecosistemici che prescindono dai confini di Stato. Gli Stati Membri a loro volta sono frenati nell’azio ne di tutela, perché il suolo è anche un bene ‘proprietario’, che si approccia con le geometrie e le rendite dei lotti di terra, molto più che col valore dei servizi ecosistemici che vengono generati a prescindere da chi figura sull’atto di proprietà.

In che misura il dissesto idrogeologico dipende anche da questo?

Molti fenomeni di dissesto dipendono dalla salute del suolo. Un terreno desertificato dall’agricoltura intensiva è fortemente soggetto all’erosione, specie quando i suoli poggiano su rilievi collinari o montani. In Italia ogni anno le superfici coltivate perdono mediamente oltre 10 tonnellate di suolo per ettaro, a causa dell’azione erosiva delle acque piovane, e spesso l’erosione è anche innesco di fenomeni franosi, di colate di fango e di detrito. Ma le conseguenze più gravi si verificano quando il suolo viene sostituito da superfici impermeabili, che determinano una accentuazione, per impulsività e intensità, dei fenomeni di piena alluvionale, che poi si abbattono su territori che dovrebbero essere pertinenze fluviali ma che sono stati a loro volta indebitamente occupati da attività produttive o residenze.

La rigenerazione urbana si scontra anche con la farraginosità delle norme. Cosa fare per invertire la rotta?

Servirebbe un vero e proprio ‘cantiere’ di innovazioni legislative e di politiche finalizzate non solo a semplificare le procedure, ma soprattutto a mettere in campo dispositivi di natura finanziaria che colmino il divario tra la liquidità degli investitori privati disponibili ad affrontare la rigenerazione, e i tempi dei procedimenti, sovente troppo lunghi e rischiosi, richiesti per far sì che aree ed edifici dismessi diventino realmente ‘sviluppabili’ dagli operatori. L’interes se pubblico a superare la condizione di degrado dovrebbe concretizzarsi in azioni e investimenti atti a rimuovere ostacoli ed elementi di incertezza, ad esempio legata alla caratterizzazione e alla analisi di rischio in presenza di eventuali contaminazioni, così da consegnare all’operatore un’area su cui il progetto di rigenerazione possa procedere secondo un cronoprogramma che assicuri un congruente tempo di ritorno dell’investimento, limitando così i margini che potrebbero motivare da un lato l’abbandono e dall’altro la speculazione. Deve infatti essere chiaro che rigenerare non significa trasformare un’area dismessa in metri cubi di immobili, ma ricostruire un ecosistema urbano, inclusa la qualità degli spazi della città pubblica e il ripristino delle funzioni ecologiche dei suoli liberi destinati a infrastruttura verde.

Giampiero Guadagni

 

( 26 aprile 2024 )

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