Domenica 19 maggio 2024, ore 7:43

Libri

Una poesia della soglia

di GIUSEPPE MANITTA

"Qui dove morire è esistere / nell’ab braccio domenicale di un selfie / nell’ansia prima delle partite / nella calma sottile / rimasta a mezza altezza nello stradino / dove le badanti dell’est confabulano / prima di aprire l’om brello». Su questa posizione liminare si sviluppa “Per sempre vivi” (Pellegrini editore, collana “vega” diretta da Tiziano Broggiato), l’ultima raccolta di poesie di Alessandro Moscé, che sin dal titolo gioca sull’ambiguità e fragilità dell’esistenza perché se da un lato sembrerebbe richiamare all’immortalità, dall’altro lato, se ben consideriamo il concetto di assenza, meglio si denota la posizione transeunte delle figure richiamate nel testo e la labilità dell’esperienza personale. Non è un caso, infatti, che tutte le sezioni del testo richiamano alla dialettica dell’essere-non essere, sin da quella incipitaria, “Apparizioni”. Si mostra, infatti, ciò che non è, tanto che gli affetti, i ricordi, le persone si presentano in una sequenza ininterrotta, nella quale aleggia il senso visionario dell’al trove, con il quale il poeta costantemente si confronta.

Una poesia della ‘soglia’ nella quale gli oggetti abbandonano la loro funzione descrittiva per tramutarsi in ‘richiami’ all’altro. Ogni giorno, infatti, apre una ferita nell’uomo e, su questa base, possiamo rintracciare una intensa meditazione sul dolore. La sofferenza, però, non è una semplice chiave individuale, ma collettiva. Il tessuto versificatorio rivela così la sua veste dialogica, nella quale l’Io lirico parla con un ‘Tu’ che possiamo definire allargato e che si materializza ora in figure femminili conosciute, ora nel padre scomparso, ora in ‘persone’ emblematiche, ma sempre in assenza. Eppure, in ogni caso, i dettagli realistici come le topografie si tramutano nel punto focale dal quale si dipana un corollario di visioni, di concetti e di ricordi. La dimensione sospesa viene confermata dalla seconda sezione “Sogni”, in cui si approda all’ambito onirico e a quello desiderativo, accedendo di fatto all’ambivalenza del termine che dà il titolo alla sezione stessa. Se, dunque, il nonno appare come un fantasma, o quasi, è altrettanto vero che la proiezione del sogno permette all’autore di interrogarsi continuamente sullo stato delle cose e di se stesso. Un elemento da non trascurare è, infatti, la tensione interrogativa che verte sul senso della vita e della morte, al fine di immergersi nel mistero dell’esistere: «Dove siamo noi superstiti degli anni Duemila? / Voliamo o restiamo fermi ai davanzali?». La tensione ossimorica è, dunque, una costante di “Per sempre vivi”, e ciò avviene anche nella terza sezione del libro che, nella sua poesia iniziale, sottolinea l’impor tanza di sapersi immergere nell’ambiente circostante e di ascoltare tutto ciò che è presente e assente: «Il suono del silenzio/ lo hai mai sentito alle cinque del mattino / quando il buio definisce anche i brusii? / Il mondo si annusa, alle cinque del mattino».

Ed è questo annusare la vita che consente di leggerla e cogliere quel confine al quale si accennava prima, nonché la riflessione su ciò che è scomparso («Ho scritto così tanto sulle scomparse / che quando succederà la signora morte / esperta dei cambi di scena / mi farà un inchino») e sul mistero del tempo. Anche qui ci ritroviamo di fronte a una indagine su ciò che siamo e ciò che saremo, sul dubbio, sull’incapa cità dell’uomo di conoscere se stesso. E si conferma, ancora una volta, la vocazione interrogativa del testo: «Se i calendari scaduti vanno buttati nella pattumiera / nell’aldilà i giorni saranno segnati con una croce? / L’abisso ci renderà liquidi come il petrolio? / Saremo energia combustibile o polvere impura?». Un enigma che non trova soluzione se non nella visione. In tale percorso s’inne stano perfettamente i colloqui con il padre, i quali, se da un punto di vista stilistico segnano una cesura rispetto ai versi precedenti, in quanto sono dei veri e propri dialoghi brevi, allo stesso tempo mantengono tutta la poesia dell’ignoto, della metafora e della contraddizione. Si tratta di una sezione (“Dialoghi con mio padre”) che evidenzia un disvelamento, tanto da confermare con le parole del genitore quello stare su un crinale tra vita e morte, tra oggetti e relazioni (prima) e nudità (poi). A ben leggere l’o pera di Moscé si rileva un dettaglio stilistico, che è molto importante dal punto di vista strutturale. I testi, pur avendo la punteggiatura, non si chiudono mai con un punto fermo. Ciò significa che ogni pagina è legata all’altra così da formare un flusso continuo. Si aggiunga che apparizioni e sogni iniziali progressivamente si avvicinano alla tangibilità del padre e, in questa continua appropriazione del rapporto vita-morte, si giunge all’Io, in cui si ha la palese dimostrazione di quel mistero tra esistere e non esistere. “Per sempre vivi” si chiude, infatti, con “La guarigione”, nella quale si ripercorre la malattia dell’autore e si riflette ulteriormente sull’im ponderabilità degli eventi, sul crinale che rende il poeta quasi un funambolo. E proprio nel luogo-non luogo dell’ospedale si resiste all’apocalisse: «Il massiccio ciclo di chemioterapia / aggrediva i microrganismi proliferati / dell’osso pubico e dell’acetabolo / granitici come il marmo metamorfico. / Resistevo ad ogni vampa dell’apocalisse».

( 6 maggio 2024 )

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