Ci sono persone che ti passano accanto nella vita e che ricordi sempre per un tratto profondo e impercettibile all'inizio ma che poi ti risuona dentro con una speciale armonia. Per me Federico Caffè è stato uno di questi uomini. E il suo tratto profondo è stato portare sempre con sé e agli altri e per gli altri le tre virtù penultime: umiltà, attenzione, rispetto.
Umiltà come scelta di vita: frequentava i palazzi di un potere economico ormai quasi scomparso come Bankitalia con la leggerezza diafana di chi compie un dovere e non esercita un prepotente diritto.
L'economia per lui non era la triste scienza dell'ideologia cartesiana e illuminista quanto invece il punto di cristallizzazione di una scelta morale per realizzare, nella crescita, la giustizia commutativa, e cosi scrivendo e operando si compiva un atto di servizio.
Attenzione alle persone: lo ricordo alla scuola di alta formazione dell'ENI negli anni Settanta e all' inizio di quelli Ottanta, prima che il ciclone partitico e rozzamente managerialistico tutto distruggesse; attorno a sé: per i professori in pantaloncini corti come me e per i vecchi petrolieri delle terre lontane vi era lo stesso rispetto che riservava ai lavoratori come persone, e non come monistica entità di una classe inesistente.
Rispetto, per un destino crudele per un dio nascosto pascaliano che strappò alla vita due suoi magnifici allievi: con la mano del terrore Enzo Tarantelli, con quella della sfortuna dalla zampogna shakespiriana, Fausto Vicarelli. Ne rimase sconvolto. E tutto questo dolore mentre la sua umana scienza economica diveniva quella triste scienza che è alla base dell'odierna strage degli innocenti, con i trionfanti cavalieri dell'apocalisse.
Ho sempre trovato conseguente con la sua spiritualità che abbia voluto un giorno lasciarci per compiere ancora un cammino definitivo verso la salvezza.
Per questo la sua vita non è stata accompagnata dalla morte ma dalla teodicea.