I giochi di prestigio del presidente americano sui dazi minacciano l’economia reale, ma fanno il gioco della finanza speculativa, mettendo a rischio invece tanti posti di lavoro. L’entrata in vigore, prevista per agosto, dei nuovi dazi statunitensi al 30 %, su molti prodotti europei, rischia di colpire le filiere produttive italiane che esportano verso gli Stati Uniti.
Addirittura il 75 % dell’impatto occupazionale potrebbe concentrarsi nel Nord Italia, con una perdita potenziale tra 115mila e 145mila posti di lavoro a livello nazionale e oltre 25mila posti a rischio in Emilia-Romagna, secondo i dati di ReportAziende.it
Indipendentemente dall’esito finale di scelte che cambiano di ora in ora, l’incertezza sicuramente blocca molte scelte di piccoli imprenditori ed il tessuto produttivo italiano è prevalentemente composto da micro, piccole e medie imprese, gran parte delle quali attive nel Made in Italy. Questo settore - sia che si parli di abbigliamento, accessori, che di agro-alimentare- da sempre combatte contro il rischio contraffazione ( e più salgono i prezzi a causa dei dazi, più si diffonde il mercato del falso, anche del falso perfetto, che non sempre si riesce adeguatamente a contrastare). La contraffazione genera concorrenza sleale, minori introiti per le imprese che rispettano le regole, e quindi riduzione dei posti di lavoro.
L'amministrazione Trump ha in corso l’elaborazione di alcuni accordi commerciali e potrebbe annunciarne due o tre prima del primo agosto, quando scatteranno i pagamenti dei dazi reciproci comunicati tramite lettera dal presidente Usa.
Nel frattempo, a giugno l'inflazione negli Stati Uniti ha subito un’accelerazione. Il perché è molto semplice: i dazi fanno inevitabilmente salire i prezzi.
In America a giugno i prezzi al consumo sono saliti del 2,7% su base annua, sopra il 2,4% di maggio e oltre le attese degli analisti.
Se tuttavia in genere all’inflazione non si accompagna la disoccupazione ( perché in una situazione di disoccupazione diffusa e di bassi redditi, gli acquisti si riducono e quindi i prezzi scendono), la Storia insegna che talvolta si può verificare l’incubo economico, cioè la stagflazione, vale a dire una situazione in cui una situazione di disoccupazione grave non riesce a far scendere i prezzi.
E’ quanto si è verificato in Germania all’indomani della fine della prima guerra mondiale, quando le sanzioni per la sconfitta furono pesantissime. E la guerra è stata un elemento “esterno”, tecnicamente come lo sono i dazi, che in fondo rappresentano una sorta di “guerra commerciale” tra democrazie (in quanto dalla prassi storica non risulta che due democrazie abbiano mai combattuto una guerra tra loro con le armi).
E l’analogia tra la politica dei dazi di Trump e un conflitto emerge dalle parole del ministro degli Esteri Antonio Tajani, che a proposito del negoziato sui dazi afferma: "C'è tempo fino al primo di agosto, bisogna trattare: le posizioni non sono ancora vicinissime però bisogna continuare il dialogo perché una guerra dei dazi non conviene a noi; non conviene agli americani, perché l'Europa bisogno degli Stati Uniti ma anche gli Stati Uniti hanno bisogno dell'Europa".
Secondo l’elaborazione di ReportAziende.it, condotta su dati Istat-Comext ed Eurostat aggiornati al 2024, l’Italia esporta verso gli Usa oltre 70 miliardi di dollari all’anno (circa 63 miliardi di euro). Oltre 30 miliardi di euro sono riferibili ai comparti direttamente colpiti dai dazi, il cui effetto immediato potrebbe tradursi in una perdita diretta fino a 9 miliardi di euro. Considerando anche le conseguenze su filiere, marginalità, investimenti e consumi si parlerebbe invece di una cifra tra 18 e 22 miliardi di euro nel biennio 2025–2026.
Tra i settori più vulnerabili il farmaceutico (circa il 18 % dell’export italiano di medicinali e preparazioni è diretto negli Usa, vale a dire 7 miliardi di dollari su 75 miliardi di dollari totali di settore), la meccanica generale (con il 6,8 % del valore del comparto), l'automotive, le macchine industriali, il vino e bevande, la moda e la pelletteria, i mobili e l'arredamento, i metalli e l'acciaio, l'elettronica medicale.
Rischiano di essere più penalizzate le regioni settentrionali, in cui si concentrano le produzioni verso gli Usa, in particolare Lombardia (Milano, Brescia, Mantova) nei settori pharma, meccanica, moda, formaggi; Emilia-Romagna (Parma, Modena, Reggio Emilia) nei comparti agroalimentare Dop, automotive; Veneto (Treviso, Verona, Vicenza) negli ambiti rappresentati da occhialeria, vino, moda, salumi; Toscana (Firenze, Arezzo, Siena) vino Doc, moda, gioielleria; Piemonte (Torino, Cuneo) per quanto riguarda la componentistica auto, la meccanica di precisione, l’agroalimentare. Le difficoltà a smaltire le scorte e l’aumento dei costi di produzione potrebbero tradursi in un +10 % medi dei prezzi al consumo nei settori colpiti, a partire dal primo trimestre 2026, in particolare per formaggi Dop, salumi e olio Evo, vini premium e Doc, abbigliamento e calzature di fascia medio-alta. La scansione temporale degli effetti potrebbe essere questa: tra agosto e settembre 2025 ci sarebbero le trattative commerciali; nel quarto trimestre 2025 la piena applicazione dei dazi con riduzione dei margini e cancellazioni di ordini; nel 2026 un calo dei volumi fino al 40 % in agroalimentare, meccanica e moda; e quindi, il rischio di abbandono del mercato Usa da parte di molte Pmi.
A livello europeo si valutano contromisure su whiskey, automotive e prodotti tech, insieme a strumenti straordinari di sostegno per le imprese. Anche in una guerra combattuta a colpi di dazi, a farne le spese sono sempre i più deboli: i lavoratori.
Elisa Latella