«Per essere eleganti non bisogna farsi notare, bisogna proscrivere i profumi, bandire i colori violenti e ricercare le armonie neutre o fredde, valorizzare l’accessorio perché da esso dipende l’armonia generale dell’abito.» È un aforisma di Lord George Bryan Brummel, ricalcato quasi integralmente da Giorgio Armani: «Per essere eleganti non si deve assolutamente aver l’aria di essersi vestiti a fondo, vale a dire essersi studiati molto bene, essersi coordinati; bisogna sempre avere un’aria piuttosto casuale, che non significa essere trasandati». D’altro canto, lo stilista piacentino sembra la reincarnazione del dandy inglese. Con una differenza. Il primo ha lasciato un’impronta nel mood di un’epoca. Il secondo è stato lui stesso un’epoca. Quella dell’ascesa irresistibile di un costume finalmente libero da certi eccessi residui del boom economico e dal grigiore degli anni di piombo. Sullo sfondo degli exploit di Armani si delineava finalmente una Milano ripulita dai fumi dei lacrimogeni, dagli slogan ripetitivi e inefficaci, dall’orrore dell’estremismo. Sì, c’erano anche Craxi e i prodromi di Tangentopoli (con code ridiventate attualissime), la cocaina, l’AIDS, l’anoressia delle modelle e l’edonismo reaganiano. Il tutto concentrato nel nuovo logo dilagante: MILANO DA BERE. Ma dietro gli occhi azzurri di Armani e sotto le sue inimitabili giacche invertebrate, o meglio destrutturate, avanzava una stagione non più asfittica come il primo dopoguerra.
Lui l’aveva vissuta sulla propria pelle. Abortiti gli studi di medicina, decise di seguire un percorso esistenziale, non solo professionale, che gli avrebbe dato la possibilità di esprimere appieno la creatività, ma anche il carattere: «Gli aggettivi con i quali mi identifico, come persona e stilista, sono: preciso, pignolo, rigoroso, intransigente, leale, costante, determinato, appassionato. La mia moda nasce da un lavoro di sottrazione, dal rispetto per chi indossa l’abito, dall’idea di creare uno stile capace di resistere, pur evolvendosi nel tempo».
Una scelta, la sua, che non tarda a dare frutti. Nel 1957 iniziò la carriera nel mondo della moda e più di preciso del “menswear”, l’abbigliamento maschile. A partire dalla gavetta come vetrinista e commesso della Rinascente di Milano. Una scuola d’ingegno, fatta di visual merchandising agli albori e sartoria. Dopodiché il passaggio da Nino Cerruti: nel 1965 venne assunto per apportare idee alla linea maschile “Hitman”. Scattò così il suo ingresso concreto nel design della moda. Anni dai quali Armani ricavò amicizie e affetti, soprattutto quello con l’architetto Sergio Galeotti, in seguito suo socio e compagno di vita. Con lui, il maestro della moda italiana transitò verso conquiste di lavoro e perfezionismo che ne fecero un personaggio pubblico, a prescindere dal giro di affari.
Di lui oggi resta un’eredità che si allarga dalle sfilate all’intero palcoscenico di una società. Con Armani, l’Italia è cresciuta non solo nel campo della moda e dell’export settoriale. Oggi nel mondo si cercano con il rispetto dedicato alle opere d’arte i capi firmati made in Italy. E si deve ad Armani la densità acquisita nel tempo dal concetto di griffe.
Enzo Verrengia