La vicenda urbanistica e giudiziaria del Comune di Milano che in queste settimane sta interessando la cronaca pone il problema, non più procrastinabile, di ripensare la città in un’ottica più sostenibile. Le scelte di pianificazione toccano il cuore della vita dei cittadini poiché l’assetto del territorio si riflette “Nell’abitare, nel lavorare, nel ricrearsi e nel circolare” (Le Coubusier, Carta d’Atene, 1933). E allora cos’è l’Urbanistica se non una forma di democrazia? Del tema, ne parliamo con il Professore Paolo Urbani ordinario di diritto amministrativo dell’Università La Sapienza di Roma, tra gli oltre duecento firmatari dell’appello pubblico “Per una radicale svolta urbanistica a Milano e in Italia”.
Prof. Urbani, considerata la crisi economica del 2008, l’emergenza sanitaria del 2020, l’inurbamento imperante, qual è oggi l’odierna definizione di “rigenerazione urbana”?
Il termine si presta ad un equivoco: quale rigenerazione e in quali parti di città? Gli interessi finanziari immobiliari in crescita favoriti anche dalla possibilità della demo/ricostruzione del dpr 380 2001 art 3, hanno preferito concentrarsi sulle aree centrali ad alto valore aggiunto trascurando le periferie. La rigenerazione si è trasformata come a Milano in attività speculative senza favorire una migliore qualità pubblica degli insediamenti che avrebbero potuto favorire huosing sociale e servizi alla persona. Cosa che non è accaduto.
Quindi, in concreto come si applica una politica pubblica volta alla rigenerazione urbana?
Il tema è assai risalente, basti pensare agli istituti introdotti negli anni dalla legislazione statale come il piano di recupero della l457/78 o il programma di riqualificazione urbana del 1993 che miravano proprio alla rigenerazione di aree e interi quartieri ma che non hanno dato risultati. Al fondo di queste questioni vi è da un lato la carenza di fondi pubblici ormai cornica per favorire tali riqualificazioni, dall’altro vi è - come sta succedendo da tempo in molte città italiane ,vedi anche Roma - i poteri pubblici puntano sull’apporto dei privati per favorire attraverso accordi urbanistici delll’art’11 della l.241/1990 la convenienza economica dei privati ad intervenire e dall’altro la richiesta pubblica di contribuire al recupero delle aree degradate, considerando che spesso tali interventi sono oggetto di variazione dello strumento urbanistico. La dottrina parla di scambi leali ma spesso questi sono ineguali se non sleali poiché il rapporto pubblico privato è a tutto vantaggio degli investitori privati. In questi casi spesso la PA appare come un contraente debole incapace di contrattare e di soddisfare l’interesse pubblico. Se gli interventi fossero oggetto di partecipazione preventiva della collettività interessata la pressione degli interessi privati dovrebbe cedere il passo all’interesse pubblico non solo interpretato dal comune.
Cosa è accaduto nel mondo dell’urbanistica meneghina?
La vicenda di Milano rispecchia perfettamente il quadro delineato poiché attraverso la flessibilità delle previsioni del piano urbanistico si è permesso di demo/ricostruire interi fabbricati mutandone la destinazione d’uso e prevedendo premi di volumetria che hanno sconquassato i quartieri di riferimento con grattaceli senza garantire gli standard urbanistici per i nuovi residenti ma in più usando titoli edilizi (SCIA) illegittimi per tal interventi. Gli abusi edilizi sono stati rilevati dal giudice penale mentre si appalesa il pericolo di attività corruttiva della PA e di conflitti d’interesse tra progettisti e operatori privati.
A scapito della garanzia degli standard urbanisti, ossia il rapporto tra vuoti e pieni?
La rigenerazione urbana, favorita oggi dagli interventi legislativi prima richiamati, ha fatto irruzione nelle nostre città perdendo di vista l’ordinato assetto del territorio, riducendo drasticamente la garanzia degli standard, anche introducendo l’assurda loro monetizzazione prevista da molte leggi regionali come la Lombardia, ma mai prevista dal legislatore statale.
Con l’appello sottoscritto insieme ad altri studiosi, si chiede “all’amministrazione milanese e alle istituzioni politiche e di governo di fermare i grandi e medi progetti in corso per imprimere una direzione diversa, trasparente e democratica”, si corre il rischio di bloccare la città e riportare Milano alla triste stagione di “Mani Pulite”?
Certamente questo può accadere anche perché gli interventi proposti si muovono tutti nella stessa ottica, ma nulla impedisce che il Comune si occupi dei ceti poveri, favorisca la realizzazione dell’edilizia pubblica, migliori i servizi, preveda studentati a prezzi calmierati e non di mercato etc. Ce n’è per non bloccare l’economia!
Bisogna quindi ripensare il ruolo delle regioni, nell’ambito del potere di legislazione concorrente?
Non è più possibile permettere alle Regioni, nell’ambito del potere concorrente, di continuare a creare una panoplia di discipline urbanistiche, senza che una volta per tutte siano fissati i principi fondamentali della materia, che la Corte Cost. si perita di richiamare ma questo non basta a dare un assetto stabile alla materia urbanistica, travolta sempre più dal software – l’attività edilizia derogatoria del dpr 380/2001 - a scapito dell’hardware - il piano. Resta certamente aperto il problema della riforma urbanistica che fissi i principi fondamentali della materia ma questa manca dal 1972 anno in cui furono trasferite le funzioni urbanistiche alle regioni.
Secondo lei, c’è un rapporto tra la crisi della democrazia rappresentativa e il fatto che i governi locali - nel processo di formazione della volontà politica di determinare l’assetto dei suoli - sono sempre meno in grado di interpretare e tutelare gli interessi della collettività?
Sì, come detto nelle considerazioni precedenti.
In questo scenario, come bisogna individuare le regole per misurare l’interesse pubblico, scopo precipuo dell’attività amministrativa, nei processi di rigenerazione urbana sia in caso di varianti urbanistiche che in caso di mixitè (superamento della zonizzazione)?
La risposta è contenuta nell’art.16 4 co del TU 380 ove è previsto che in caso di variazione del piano o di mutamento di destinazione d’uso dei beni da recuperare tutto a vantaggio dell’intervento privato il 50 del maggior valore inteso come contributo straordinario vada a vantaggio del comune che destinerà i fondi per servizi di pubblica utilità. Purtroppo, tale norma è in gran parte disattesa sia perché non recepita dalle regioni sia dai piani urbanistici vigenti. Ma la norma coglie perfettamente nel segno.
Serafina Russo