Giovedì 1 maggio 2025, ore 4:15

Letteratura

100 anni di un capolavoro

di ENZO VERRENGIA

Cento anni dalla prima edizione de “Il Grande Gatsby”, il romanzo più leggendario di Francis Scott Fitzgerald, nonché l’affresco più rappresentativo dell’Età del Jazz. Ma non c’era bisogno di secolo per attestarne la qualità di classico. E non solo. Quando negli esecrabili anni ’80, quelli dell’edonismo reaganiano, così battezzato da Roberto D’Agostino, spuntarono su ambo le rive letterarie dell’Atlantico i perniciosi “giovani autori”, questi ultimo ignoravano, o fingevano di ignorare, che l’au tore di “Di qua dal Paradiso” e “Tenera è la notte” aveva già scritto tutto su quello che c’era da scrivere su quella parentesi effimera e spesso deragliante dell’esistenza chiamata gioventù.

In “Il Grande Gatsby”, Fitzgerald affabulò la biografia di un gangster ebreo, Arnold Rothstein, ricavandone un idolo solitario e schivo, l’uomo che per fare colpo su una donna dà delle feste sibaritiche in una tenuta di Long Island acquistata espressamente per quello scopo. E lei chi è?

Daisy, una giovane che come tutti i suoi coetanei crede di vivere in un’epoca dorata che non avrà mai fine, esorcizzati gli incubi delle trincee francesi della Grande Guerra, dove molti coetanei perirono in cerca di gloria o restarono mutilati. Mentre incombe un conflitto che sarà ancora più orribile e finirà con il doppio fungo atomico di Hiroshima e Nagasaki. La dedizione di Gatsby a Daisy è priva di compromessi: «Sapeva che baciando quella ragazza, e unendo per sempre quelle indicibili visioni al mortale respiro di lei, la sua mente non avrebbe più spaziato come quella di Dio».

Lo narra Nick Carraway, cugino di Daisy e testimone del suo amore impossibile con l’ex contrabbandiere di alcol divenuto, appunto, il Grande Gatsby.

Il destino amaro ha perseguitato Fitzgerald ben la morte. L’insuccesso che segnò il suo tragico declino umano e sanitario (fu stroncato da un infarto il 21 dicembre 1940) si capovolse in una corsa a sfruttare il suo nome da postumo. Scaduti il 31 dicembre 2020 i diritti de “Il Grande Gatsby”, ecco che il 5 gennaio del 2021 ne appare in libreria il prequel.

Si intitolava “Nick”, con protagonista quel Nick Carraway che è l’io narrante dell’opera originale. L’autore, Michael Farris Smith, ha firmato libri di successo, ma qui si cimentava con un background sospeso fra l’invenzione e l’epopea del limbo dorato fra le due guerre ma traviato dalla Grande Depressione. Di tutto questo si sente l’eco nelle vicende di Nick Carraway che precedono il suo incontro con Gatsby, ma l’affare editoriale induce ad una riflessione di più ampio raggio sull’unicità di certi capisaldi letterari.

Che succederebbe, ad esempio, se si provasse a tornare sui grandi poemi epici. Per la verità, con l’“Odissea” si cimentò un celebre scrittore di avventura britannico, H. Rider Haggard, che con Andrew Lang diede alle stampe “Ulisse – Il viaggio del desiderio”. Mentre Roger N. Morris ha rimesso in azione nientemeno che il giudice Porfirij, il magistrato implacabile che incastra Raskolnikov in “Delitto e castigo”. Si sono letti sequel di “Via col Vento, Rebecca la prima moglie”, e prosegue nei Paesi di lingua inglese la serie dei romanzi su 007, non tutti reperibili in versione italiana. La Mondadori dedica una collana specifica, “Sherlock”, all’insuperabile detective di Sir Arthur Conan Doyle, protagonista di infiniti apocrifi. Si è provveduto anche a far “risorgere” Poirot e Miss Marple.

Tutto questo per appagare o addirittura sollecitare un pubblico subissato di offerte televisive, con serie che si trascinano interminabilmente da una stagione all’altra, trasformando l’ago gnata “fine” in un supplizio di tantalo.

Ma cosa resta dell’originale?

Guido Fink e Guido Almansi hanno certificato il tutto nel loro imperdibile e purtroppo difficilmente reperibile “Quasi come”: in letteratura tutto parte dal preesistente. L’introdu zione è un prezioso repertorio di antecedenti: «Leggi assurde, come il Copyright Act del 1709, pretendevano di punire il plagio e di costringere gli autori a dire quello che avevano da dire e basta senza ricorrere a furti e rapine nel territorio della tradizione letteraria: leggi ingenue, che ignorano il fatto che la letteratura è tutta un furto e tutta una rapina. I testi sono sistemazioni provvisorie, tende da nomadi che si spostano da un luogo all’altro nel deserto, e i falsari sperimentali sono i beduini che assicurano la circolazione delle idee».

Bertolt Brecht dichiarò a crudo: «Shakespeare? Un grande ladro come me». Intendeva, naturalmente, ammettere che il suo teatro non partiva da invenzioni, bensì da rifacimenti.

Un blob culturale in cui “Il Grande Gatsby” rimane a testimoniare che l’unicità del capolavoro non soltanto resiste al tempo e al disinteresse dei lettori, che NON hanno sempre ragione. Vale la pena allora di tornare sulle sue pagine, tradotte in maniera non sempre brillante dalla sopravvalutatissima Fernando Pivano e riproposto dalla Garzanti, che ne ha affidato una nuova versione a Claudia Durastanti.

( 23 aprile 2025 )

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