Lunedì 4 agosto 2025, ore 18:21

Letteratura

L'estate di Pavese

di ENZO VERRENGIA

In quelle estati che ormai hanno per me un colore unico, sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito comincia lo smarrimento della distanza, l’incredulità di ritrovare tanta gioia in un tempo scomparso e quasi abolito.» È Cesare Pavese in “Fine d’agosto”, il più emblematico dei tasselli narrativi che compongono la silloge Feria d’agosto. La percezione soggettiva all’estremo, cioè autobiografica, del senso di una stagione che diventa patrimonio della memoria di tutti. Qualche anno prima di Pavese, Marcel Proust l’aveva definita in Alla ricerca del tempo perduto “visione totale dell’estate”, abbracciata da un colle di Iliers, ribattezzata Combray nella finzione. Lo scrittore di Santo Stefano Belbo va oltre, precisa le coordinate interiori del suo alter ego in rapporto al paesaggio retrospettivo: «Un ragazzo – ero io? – si fermava di notte sulla riva del mare – sotto la musica e le luci irreali dei caffè – e fiutava il vento – non quello marini consueto, ma un’improvvisa buffata di fiori arsi dal sole, esotici e palpabili. Quel ragazzo potrebbe vivere senza di me…» L’esatto contrario di Odio l’estate. Nel mondo prebellico, Pavese coglieva un’essenza tutta occidentale, che risaliva all’antica Roma e alle Feriae Augusti, senza le quali non sarebbe scaturita una traduzione prolungatasi al di là del suo suicidio, fino a Il sorpasso.

Il paradigma delle ferie diviene perfetto nel romanzo che più lo rappresenta, La spiaggia. Qui Pavese è già uomo, avviato verso l’inesorabile strada senza ritorno dell’autolesionismo finale. L’invito di Doro e Clelia, coppia esemplificativa di una stabilità negli affetti che forse non c’è tra di loro, non serve e che a prolungare nell’illusione delle ferie la possibilità di aderire alle cose e preservare la propria esistenza. Se non fosse che il sole e l’abbaglio del mare hanno il proprio ciclo circadiano.

«La notte, quando rientravo, mi mettevo alla finestra a fumare. Uno s’illude di favorire in questo modo la meditazione, ma la verità è che fumando disperde i pensieri come nebbia, e tutt’al più fantastica , cosa molto diversa dal pensare. Le trovate, le scoperte, vengono invece inaspettate: a tavola, nuotando in mare, discorrendo di tutt’altro» Le ferie come scatole cinesi dell’autorivelazione?

Fortemente pavesiano Foglie secche, di Aldous Huxley, pubblicato nel 1925, una sottospecie di umanità inglese si assembra entro le mura di una castello di proprietà dei Malaspina, sulla costa della Versilia. La cornice vacanziera non si risolve in autentica baraonda, pure si accendono gli incroci di psicologie e sentimenti fomentati dal sole tirrenico.

Più Pavese di così… O meglio, comune Weltanschauung delle ferie.

Goffredo Fofi, scomparso di recente, dedicò ampie riflessioni a Pavese: «Fu un rappresentante esemplare, grande, affascinante e insieme disturbante, dei dilemmi di una generazione cresciuta nel fascismo, ma colpì anche buona parte della generazione successiva, stretta nella morsa della guerra fredda e del dover scegliere, di fatto, tra stalinismo e capitalismo, tra due imperialismi, due modelli, ieri e sempre, osceni. D’altra parte, quelli che si sentivano “salvati” (perdonati dei loro peccati degli anni trenta, detti anche “del consenso” al regime, perché avevano capito cosa fare, nel 1943), sapevano, i migliori, che Pavese li aveva pur rappresentati, capiti, spronati – e che aveva pur scritto mosso da interessi da antropologo ed etnologo nonché da scrutatore di se stesso…» Ed è proprio nelle ferie, nell’interruzione programmata e obbligatoria della routine produttiva o semplicemente ripetitiva della quotidianità, che cova una problematica sempre più attuale, malgrado le guerre, gli stermini e la permacrisis.

Configurata da Pavese. Bisogna ridefinire il senso e il fine delle ferie, per poi affrontarle con lo spirito giusto, che consiste nell’adeguarle a un proprio raccoglimento, immunizzandosi da quelle che già Goldoni chiamò le smanie della villeggiatura.

Tanto più che le ferie di massa appartengono alla contemporaneità. Nel passato solo l’aristocrazia poteva permettersi residenze estive, e fino agli anni ‘20 dell’altro secolo i bagni di mare erono prerogativa della classe agiata, che trasformò cittadine costiere suggestive ma desolate in teatri di mondanità. Pavese le conobbe di prima mano.

Fino ad allora, le ferie facevano da rito patrizio. Poi, nel secondo dopoguerra, arrivano le orde. Che bastano di per sé a creare il problema principale sfociato in fattore di rischio: l’affollamento. Il guaio del mondo contemporaneo sta infatti nel creare complicazioni e contraddizioni insolubili. A ciò si aggiungano le aspettative crescenti, come le definì Alberto Ronchey, ovvero le tensioni alimentate dai media verso la voglia di vivere l’estate ad ogni costo.

( 4 agosto 2025 )

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L'estate di Pavese

Il paradigma delle ferie diviene perfetto nel romanzo che più lo rappresenta, La spiaggia. Qui Pavese è già uomo, avviato verso l’inesorabile strada senza ritorno dell’autolesionismo finale

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