Il sorriso di Angelica. Un titolo di Camilleri che si addiceva a Claudia Cardinale, il cui personaggio più emblematico fu quello interpretato per Luchino Visconti in “Il Gattopardo”, il film che ne rivelò al mondo non solo la bellezza e la carnalità, ma anche un vitalismo mediterraneo che surclassava quello di tutte le altre dive della sua generazione e della sua latitudine. Ricorderà lei: «Sul set di Visconti, il clima era quasi religioso: non si scherzava, non si rideva, non ci si lasciare mai andare, neanche durante le pause. Si viveva, per tutta la lavorazione, un clima quasi di clausura: ti chiudevi alle spalle tutto quel che riguardava il mondo esterno e vivevi solo il film e la sua realizzazione».
Un sorriso perduto per sempre. Che resta sospeso nella memoria collettiva come una versione femminile dello Stregatto di Lewis Carroll in “Alice nel Paese delle Meraviglie”.
Per lei si è mosso addirittura Emmanuel Macron, sancendo “l’appropriazione” francese dell’attrice con un tweet su X: «Claudia Cardinale incarnava una libertà, una visione e un talento che hanno contribuito in modo determinante alle opere dei più grandi, da Roma a Hollywood, fino a Parigi, che scelse come patria. Noi francesi porteremo sempre nel cuore questa stella italiana e mondiale, per l'eternità del cinema».
Nel ritiro di Nemours, dove son giunti al traguardo i suoi 97 anni, converge una vicenda personale presto allargata alla cronaca, al costume e alle potenzialità di un Paese, l’Italia, che annovera figure iconografiche, oltre a poeti, navigatori e quant’altro. Innanzi tutto la nascita tunisina. Oggi che la migrazione dall’Africa è un esodo biblico, riesce quasi incomprensibile la scoperta che agli inizi del Novecento ve ne fu un’altra in direzione contraria, dalla Sicilia. Ne provenivano i trisavoli di Francesco Cardinale e Yolanda Greco, genitori di Claude Joséphine Rose, poi semplicemente Claudia.
Dalla vita familiare nel campo dell’imprenditoria navale al documentario che segnò la sua prima apparizione sullo schermo il passo fu breve. E ancora di più quello che dalla settimana del cinema tunisino la catapultò a Cinecittà, a Hollywood e su tutti i grandi schermi del pianeta.
La sua indole africana fu determinante nel farle superare il trauma dello stupro subito a Londra nel 1958, dal quale nacque Patrick, con cui la Cardinale sviluppò un legame fortissimo. Unito a quello che visse con due uomini decisivi per lei: il produttore Franco Cristaldi e il regista Pasquale Squitieri. Fu quest’ultimo il grande amore della sua esistenza.
Alberto Moravia si sentiva a disagio dinanzi alle forme procaci della Cardinale, cui venne assegnata la parte di Carla Ardengo nel film del 1964 che Citto Maselli trasse dal romanzo “Gli indifferenti”. Il loro incontro diede origine a un libro fotografico in cui la personalità dello scrittore è posta a diretto confronto con le grazie femminili di una dea fatta per la celluloide.
Ennio Flaiano, altro caposaldo della cinematografia nazionale, non si pronunciò mai su di lei. Vano cercarne tracce nei suoi impagabili aforismi. Però insisteva sul fatto che la Cardinale dovesse recitare con quella sua vera voce, roca e sensuale, dove indugiavano i residui fonemici di tutte e tre le sue lingue: il francese, il siciliano e l’italiano, appreso dopo i sedici anni.
Cosa c’era dietro tanto splendore? Disse lei: «“Spesso gli attori sono belli come li si vede sullo schermo. Ma sono molto più infelici di quanto non appaia e non si sappia.”
Allora, ben en più in alto di Camilleri, valgono per lei i versi conclusivi di “Ode su un’urna greca”, di John Keats: «“Verità è bellezza, bellezza verità” – questo è tutto / ciò che è dato sapere su questa terra».