Martedì 6 maggio 2025, ore 5:03

Libri

Nazionalismo, internazionalismo e libertà

di CARLO MARSONET

In tempi di rigurgiti nazionalisti, non c’è cosa migliore che riprendere in mano i classici del pensiero liberale. Una dottrina che si è da sempre prestata a fraintendimenti se non a pregiudizi di natura ideologica.

Nazionalismo può significare cose diverse, certamente. Un conto, per esempio, è provare un certo attaccamento all’idea di patria o comunità, alle proprie molteplici radici di natura pre-politica, ma non per questo rinchiudersi entro angusti e soffocanti confini.

Altra cosa è invece auspicare il primato della nazione, magari con la maiuscola, perseguendo politiche di chiusura, ostilità e supremazia nei confronti di chi viene dall’e sterno. Altro ancora, anche se può legarsi alla seconda opzione, è auspicare che la nazione si espanda: in questo caso, il nazionalismo diventa imperialismo. Rimane però il fatto che il pensiero liberale, per sua costituzione genetica, è sempre stato fautore della società aperta. Un’apertura non incondizionata, come diceva anche Karl Popper. Ma il liberale sa che la propria individualità non è nulla se non è esposizione a qualcosa di più che a un’unica monolitica radice. Il liberalismo, dunque, non può che essere internazionalista, cioè a dire aperto agli scambi economici, culturali, politici con paesi differenti. Il miglior modo per evitare il conflitto, come hanno mostrato in una bella antologia del pensiero liberale internazionale Alberto Mingardi e Nicola Iannello, è l’interdipendenza tra le nazioni, le economie e gli individui ( Pace e mercato. Le relazioni internazionali nella tradizione liberale, Studium).

Esattamente ottanta anni fa, nel 1945, uno scienziato sociale elvetico-tedesco, Wilhelm Röpke (1899-1966), ammoniva dal pericolo del nazionalismo. L’ordine internazionale , questo il titolo dell’opera pubblicata in Italia da Rubbettino e per la cura di Flavio Felice, ripudiava due vie parimenti errate. Quella del nazionalismo, ovviamente, foriera dei più spietati scontri tra Stati, come il Novedi cento ci ha testimoniato, ma anche quella dell’internazionalismo falso. Per Röpke, come era pernicioso lo Stato nazionale, così sarebbe stata anche la sua sovraestensione su scala planetaria, una Civitas Maxima che annichilirebbe la libertà delle persone. La speranza, secondo lui, risiedeva nell’autentico federalismo sussidiario, e affondava le radici nei principi di libertà e pace. Per Röpke, la sfida era dunque tenere bene distinti liberalismo e collettivismo, giacché «un ordine internazionale è possibile soltanto su basi liberali, non mai su base collettivista». Una posizione, questa, che ben si concilia con quella di un suo contemporaneo, Luigi Sturzo (1871-1959), e che è al centro di un saggio di Vincenzo Pintaudi compreso in Riflettere sull’alterità (Carocci). Il volume raccoglie alcuni interventi del convegno dei dottorandi di scienze sociali tenutosi all’Uni versità di Pisa sul finire del 2023.

Nella sezione dedicata al precario equilibrio tra spirito nazionale e cosmopolitismo figurano gli interessanti contributi di Lorenzo Delfino su Saint-Simon, Alessandro Dividus su T.H. Green e di Damiano Lembo su Gaetano Salvemini. È però lo scritto dello studioso messinese che merita attenzione, considerati i tempi presenti. In un’opera fondamentale come Nazionalismo e internazionalismo (1946), il prete di Caltagirone criticava l’idolatria che è alla base del nazionalismo e così scriveva: «il mondo è caduto nel peccato dell’idolatria quando ha elevato lo stato, la nazione, la razza, la classe, il dittatore, a principio di moralità di diritto e di esistenza della comunità umana. È allora che tutte le passioni si scatenano senza limiti di sorta, perché il cielo è chiuso agli idolatri e l’uomo non è più un fratello, il prossimo, ma una cosa cristallizzata nella falsa divinità; e tutti coloro che non possono assimilarsi a essa (sia la nazione, o la razza, o la classe), non sono altro che materia da soggiogare, da eliminare, da far perire».

Alla base del nazionalismo, insomma, risiede il peccato della chiusura totale rispetto all’altro.

Sturzo reputava a tal proposito cruciale creare un ordine internazionale libero e pacifico, in modo tale che il veleno del nazionalismo e dello statalismo potessero essere attenuati. La guerra, ricorda Pintaudi, non era per il fondatore del Partito Popolare Italiano qualcosa di scritto nel codice della storia: a farla sono gli uomini e dunque essa dipende, in fondo, da una morale sbagliata e da un ordine istituzionale non in grado di evitarla. Del resto così pensava Röpke, secondo il quale, si legge nelle ultime pagine del testo del 1945, «tutto dipende soltanto da noi stessi, dalla nostra intelligenza ed energia, dalla nostra onestà e magnanimità; nostra è la responsabilità e non esiste ordinanza di potenti né impersonale “corrente dei tempi” che ce la possano togliere a lungo andare». Una nota di speranza di cui si sente bisogno, a patto di saper agire per il meglio e di essere disposti a emendare la propria morale antiliberale.

( 5 maggio 2025 )

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