«Il cinema di oggi è sociale, è brutto, non fa sognare. Io voglio sognare. I film attuali sono di una noia mortale.» Nessuno meglio di Brigitte Bardot poteva esprimere il dovuto requiem per la settima arte, come la definì nel 1921 il critico Ricciotto Canudo. Lei che l’aveva elevata a celebrazione carnale del sublime. Quando gli spettatori videro sullo schermo la protagonista di “Piace a troppi”, il suo film di esordio, si ritrovarono di fronte un’icona pagana che surclassava tutte le dive fino a quel momento regine dei sogni erotici maschili. La Bardot non era soltanto un fremito di sensualità, bensì giovinezza, splendore, vitalità. Non c’era mai stata una donna simile a riempire i frame di celluloide. Roland Barthes ne colse immediatamente il valore di mito contemporaneo, che trascendeva il mero appeal. Secondo il semiologo per eccellenza, l’attrice accorpava e simboleggiava un’idea di freschezza, e finanche di purezza per la Francia che non soltanto usciva dalla guerra, ma voleva affrancarsi da Vichy, dal collaborazionismo dal tragico contributo all’olocausto.
Scenari del tutto cancellati dal sole della Costa Azzurra, di Venezia e dei luoghi deputati di un’epoca dorata che sembrava non dovesse mai finire e le facevano da sfondi abituali. Salvo poi ritrovare, decenni dopo, il realismo celato dal glamour. Confessò la Bardot sul suo scopritore e amore storico, Roger Vadim: «Russava nel sonno e andava in giro per casa tutto il tempo con le bretelle e, quel che è peggio, era diventato più un fratello che un amante».
E dopo di lui, gli altri, molti, troppi, dovettero fare di più, perché lei dichiarò: ««Più conosco gli uomini più amo gli animali». La svolta animalista della Bardot arrivò molti anni dopo: «Durante il film “Colinot l’alzasottane”, sul set c’era una capretta. La proprietaria mi ha detto “si sbrighi a finire la sua scena, perché domenica è la comunione di mio nipote e dobbiamo farla allo spiedo”. Ho comprato la bestiola e l’ho portata con me, attaccata a una corda, nell’hotel a cinque stelle. Me la sono portata in camera, che scandalo. Quel giorno ho preso la decisione di smettere con il cinema e di aiutare gli animali. Era il giugno 1973, avevo 38 anni».
Questo le comportò conseguenze spiacevoli. Subì un processo in cui dovette difendersi dall’accusa di avere insultato gli abitanti della Reunion, ai quali la Bardot imputava maltrattamenti agli animali. Le toccò anche pagare una multa. Taglienti e prive di contegno le sue filippiche contro la caccia, spesso improntate all’odio puro. Lo stesso per i suoi anatemi contro i metodi di macellazione. Talvolta trovò anche il plauso. Si schierò contro la caccia alle foche, l’impiego di animali nei circhi e il consumo di carne equina. Il tutto culminato con il finanziamento di una fondazione a suo nome.
A suo sfavore giocava una contraddizione. Per quanto la difesa degli animali sia un tipico tratto progressista, la Bardot era conservatrice, anzi reazionaria, anzi vicina alla destra più estrema. Sostenitrice solida del Rassemblement National di Marine Le Pen.
Il suo testamento morale sta in un aforisma: «Quando non ci sarò più mi piacerebbe che la gente mi ricordasse come la fata degli animali».

