Mercoledì 10 dicembre 2025, ore 5:06

Scenari

Abiti usati, quel mercato oscuro e ad alte emissioni di cui si parla poco

Se avete intenzione di acquistare capi di abbigliamento per fare regali di Natale, fatelo responsabilmente. Un’indagine transfrontaliera pubblicara da Follow the money rivela che l’industria europea degli abiti usati, a lungo promossa come sostenibile, sta in realtà alimentando un commercio nascosto ad alta intensità di carbonio con conseguenze ambientali di vasta portata. Le nuove normative Ue sui rifiuti mirano ad affrontare il problema, ma attivisti e addetti ai lavori affermano che rischiano di peggiorare ulteriormente la situazione. Gli addetti europei alla selezione dei tessuti affermano di essere sopraffatti e preoccupati di come riusciranno a gestire la Direttiva quadro (Wfd), recentemente rivista. Il settore europeo dell’abbigliamento di seconda mano, ampiamente riconosciuto come una soluzione fondamentale al danno ambientale causato dall’industria della moda globale, si trova ad affrontare una crescente pressione da parte delle forze di mercato. Secondo quanto scoperto da Follow the Money, gli abiti usati vengono spediti per migliaia di chilometri verso centri in Pakistan e negli Emirati Arabi Uniti, e a volte di nuovo in Europa, alimentando le emissioni di carbonio. Secondo esperti e attivisti, le nuove norme di Bruxelles sui rifiuti potrebbero aggravare la situazione, aumentando la quantità di vecchi tessuti che devono essere raccolti e riciclati. L’impegno europeo per un abbigliamento circolare è diventato un mercato oscuro e ad alte emissioni, che rischia di minare i suoi obiettivi verdi e di danneggiare la fiducia del pubblico. Anche perchè manca trasparenza nella filiera dell’abbigliamento di seconda mano e vi è scarsissima o nessuna supervisione sulle modalità di commercio degli indumenti dall’Ue al Pakistan e agli Emirati Arabi Uniti. Del resto, basta frequentare Ebay per interrogarsi sulla provenienza di alcuni capi. Quelli di una nota marca tedesca d’avanguardia, ad esempio, vengono venduti dall’Ucraina. Nonostante la guerra in corso, i venditori scrivono nelle inserzioni che i capi acquistati ci metteranno al più 20-30 gg. per essere ricevuti. Ci sono molti profili ucraini che vendono blocchi e blocchi di capi usati di marca, il che lascia perplessi considerando l’attualità. Ma questo è solo un caso che ho verificato sul campo. Resto altrettanto perplessa di fronte ai video su Instagram che turisti italiani pubblicano sorridendo all’interno di depositi vietnamiti pieni di capi usati fin quasi al soffitto, su cui senza imbarazzo alcuno gli stessi ignari scattano selfie, invitando i connazionali a provare l’esperienza di strisciare su un cumulo di acari alto almeno tre metri a 40 cm. dal soffitto. I giornalisti di Ftm hanno invece monitorato gli abiti donati con SmartTag, analizzato dati commerciali esclusivi, esaminato i documenti doganali interni e commissionato uno studio sull’impronta di carbonio. Hanno inoltre intervistato anche addetti alla raccolta e alla selezione dei rifiuti tessili, attivisti per la sostenibilità, analisti del settore della moda e membri del Parlamento europeo, tra gli altri esperti. Dagli impianti di smistamento situati in paesi come Spagna, Romania e Italia, i tessuti vengono inviati ai centri di lavorazione in Pakistan e negli Emirati Arabi Uniti (Eau) e, in alcuni casi, di nuovo in Europa, ha scoperto Ftm. Secondo gli ultimi dati Ue, la quantità di tessuti usati esportati è quasi triplicata negli ultimi due decenni. Secondo un rapporto di Oxford Economics, nel 2023 gli Emirati Arabi Uniti sono stati la principale destinazione extra-Ue per le esportazioni di abiti di seconda mano provenienti dall’Unione e dal Regno Unito, con il Pakistan al secondo posto. Il Pakistan e gli Emirati Arabi Uniti dispongono di zone economiche speciali che facilitano le esportazioni e il commercio, dove i vecchi vestiti europei vengono smistati e riesportati nei mercati africani, lontano dal controllo (anche finanziario e legale) europeo. Per tracciare questi percorsi tortuosi, Ftm ha posizionato 28 SmartTag negli abiti donati in cinque paesi: Italia, Francia, Germania, Spagna e Romania. Dodici SmartTag sono riemersi al di fuori dell’Unione, finendo in Marocco, Tunisia, Serbia, India, Pakistan ed Emirati Arabi Uniti. Alcuni di questi indumenti esportati finiscono addirittura per essere esportati nuovamente in Europa, completando una sorta di “circolarità” distorta che moltiplica le emissioni di carbonio anziché ridurle. L’anno scorso, il regolamento sulle spedizioni di rifiuti ha imposto regole più severe sull’esportazione dei rifiuti, compresi i prodotti tessili, verso paesi extra Ue per impedire esportazioni illegali. E la direttiva quadro sulle acque di quest’anno ha imposto che tutti i tessuti vengano raccolti separatamente per distinguere gli abiti riutilizzabili dai rifiuti, moltiplicando probabilmente la quantità di indumenti che dovranno essere trattati. Molti di questi prodotti finiscono, ad esempio, sulle spiagge del Ghana. Con i magazzini Ue sovraffollati e i mercati di esportazione tradizionali che chiudono, le spedizioni di abiti di seconda mano si stanno spostando verso nuovi hub, sollevando preoccupazioni circa la mancanza di regolamentazione. Ad esempio, dei 28 SmartTag posizionati da Ftm sugli indumenti donati, quattro sono finiti nella zona di lavorazione per l’esportazione (Kepz) di Karachi, sottolineando il ruolo crescente del Pakistan nel commercio europeo di tessili usati. Non è una coincidenza, spiegano i giornalisti di Ftm: la Kepz è una zona economica speciale in cui le merci possono essere importate, smistate e riesportate secondo specifiche normative doganali, generalmente senza dazi doganali. Due SmartTag sono comparsi anche in zone franche degli Emirati Arabi Uniti Uno era stato depositato a Lecce, presso un centro di smistamento di indumenti chiamato Cannone. L’altro era stato lasciato presso un punto di raccolta H&M in un punto vendita di Barcellona. Mentre la Spagna invia ad esempio enormi volumi di vestiti agli Emirati Arabi Uniti, i dati mostrano che quasi il 99,9% delle esportazioni degli Emirati Arabi Uniti verso la Spagna sono riesportazioni o passaggi: i vestiti arrivano, vengono lavorati e poi spediti senza trasformazione, il più delle volte attraverso le zone franche di Dubai. Ciò non ha sorpreso Muhammad Virji, Ceo di Universal Clothing, azienda di selezione e distribuzione di abiti di seconda mano con sede nella zona franca di Jebel Ali a Dubai: “Quando le merci entrano nella zona franca, non paghiamo alcun dazio. Quando le riesportiamo, vengono registrate come esportazione, ma tecnicamente non sono mai entrate nel Paese”. Ciò contribuisce a far sì che l’impatto del commercio sull’ambiente passi inosservato e solleva preoccupazioni in merito alla criminalità finanziaria. Le aziende degli Emirati Arabi Uniti e del Pakistan presso cui sono finiti gli SmartTag non hanno risposto alle richieste di commento. La mancanza di controlli rende le zone franche ideali per deviare il commercio europeo di abiti usati. Documenti esclusivi della Guardia Nazionale Ambientale rumena suggeriscono che alcune aziende stanno già sfruttando le scappatoie, attraverso vari paesi Ue e zone franche esterne al blocco. Spesso le aziende soddisfano i requisiti legali necessari per l’esportazione di tessuti usati. Tuttavia, le ispezioni non prendono in considerazione le pessime condizioni degli indumenti, che dovrebbero essere classificati come rifiuti anziché come indumenti di seconda mano riutilizzabili. La struttura delle catene di fornitura solleva interrogativi: perché aziende focalizzate sulla sostenibilità dovrebbero instradare le merci per migliaia di chilometri attraverso giurisdizioni così opache? Dietro la retorica verde si nasconde la realtà: spedire abiti usati dall’Ue per migliaia di chilometri fino a Dubai, per poi vederne alcuni tornare sui mercati europei per rivenderli a costo zero ma con profitto.
Raffaella Vitulano

( 9 dicembre 2025 )

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