Mercoledì 20 agosto 2025, ore 21:25

Intervista

Gaza: qui la parola futuro non esiste

Qui la parola futuro non esiste, si vive alla giornata, spinti dalla forza di volontà. L’orizzonte sono le 24 ore. Alla sera ci si saluta sperando che nella notte i bombardamenti non siano troppo intensi. Dopo ogni attacco si riparte, ostinatamente attaccati alla vita”. Angelo Rusconi è un Rlst della Filca Cisl dei Laghi, attivo nei cantieri del comasco. Esperto di logistica, è appena tornato da Gaza City, dove ha trascorso quasi due mesi a capo dei progetti di Medici Senza Frontiere, una Onlus presente con i propri presidi sanitari nelle aree più turbolenti del globo. Angelo da oltre 20 anni si mette in aspettativa non retribuita e parte. Ha prestato servizio ovunque, in Paesi colpiti da disastri naturali ed epidemie (Haiti, Indonesia, Liberia) o in guerra (Afghanistan, Congo, Somalia).

Tu dici che Gaza fa storia a sé, perché?
Nella mia vita ho visto tante situazioni terribili. In Africa ho avuto a che fare con i bambini-soldato, offuscati dalle droghe e capaci di uccidere chiunque, anche i fratelli o i genitori. Ma lo scenario era quello di conflitti fra gruppi tribali, fra signori della guerra, scoppiati sotto regimi autoritari o dittatoriali. Invece a Gaza c’è un Paese democratico, occidentale, culturalmente vicino a noi, che spara sui civili, anche sui bambini, in coda per una scodella di cibo o un sorso d’acqua. Ogni giorno ci sono migliaia di padri e madri che sfidano la morte per recuperare qualcosa da mangiare per i figli. E ogni volta ci sono morti e feriti. 

Non avevi mai visto nulla di simile?
Io ho fatto distribuzioni di cibo in tante zone del mondo: di per sé è sempre un momento delicato che va organizzato bene, ma solo a Gaza ho visto sparare sulla folla. A Rafah, a sud della Striscia al confine con l’Egitto, dove c’è un centro adibito a queste operazioni, abbiamo allestito un ospedale da campo per assistere i feriti che, puntualmente, arrivano a centinaia. Lì facciamo il classico triage: pennarello nero per chi non ha speranze di sopravvivere, poi rosso, giallo e verde. Le sale operatorie sono poche, mancano i farmaci, e occorre decidere prima chi può farcela. Ma non c’è solo la chirurgia di guerra da considerare.

In che senso?
Nel senso che la guerra a Gaza produce dai 60 ai 100 morti al giorno e probabilmente sono molti di più. Poi ci sono tutte le patologie, più o meno correlate, favorite anche dalla mancanza di cibo e acqua: il livello di denutrizione della popolazione è allarmante. Una mia assistente in questi mesi ha perso 20 kg. Per non parlare dei problemi di igiene: anche riuscire a farsi una doccia è un’impresa. Infine c’è un grosso tema di salute mentale: nei nostri ospedali cerchiamo di curare anche questo aspetto. Abbiamo idea dei traumi che subiscono i bambini? In Italia siamo fortunati, non ci cadono le bombe in testa. Io ho un figlio di 12 anni e, nel mio piccolo, ho scelto di diventare operatore umanitario per contribuire a lasciargli un mondo migliore. 

Come si sopravvive a Gaza?
Con grandissima difficoltà. Io paragono Gaza ad un grande formicaio che qualcuno prova a distruggere, ma che riprende faticosamente vita appena passa il pericolo. Si sente la bomba, si alza la polvere, suonano le sirene, arrivano i soccorsi e tutto ricomincia. Gli abitanti di Gaza, come delle formiche, ripartono ogni volta, risistemando in qualche modo la casa abbattuta o cercando un nuovo riparo. Vivono in condizioni disumane, ma non si arrendono.

Le immagini che si vedono in tv sono terribili.
La parte nord della Striscia è quasi completamente distrutta. A Gaza City le abitazioni dei quartieri settentrionali non superano i tre metri di altezza. E i bombardamenti proseguono senza sosta. Da Israele arrivano gli ordini di evacuazione, più o meno precisi, per un certo blocco di edifici. In pratica ti avvisano che entro tot ore o giorni, ma anche minuti, faranno saltare tutto. Se ti arriva l’informazione, raccogli le poche cose che riesci, scappi e ti salvi, altrimenti muori o resti ferito. La maggior parte delle persone che lavora con noi ha cambiato casa almeno sei volte dall’inizio della guerra. Questa è la normalità.

Tu eri già stato a Gaza. Che differenze hai trovato?
C’ero stato una decina di anni fa. Vivevo a Gerusalemme ed ero capo missione in Cisgiordania. Gaza City era una specie di prigione dorata, perché il controllo israeliano è sempre stato forte, non era facile né entrare né uscire. Ma era una bella città, ordinata, con abitazioni decorose, servizi che funzionavano. Oggi di quella Gaza non è rimasto nulla, qui intorno si notano solo macerie. Non c’è un edificio integro, ci sono carcasse di auto ovunque, non si vede più l’asfalto sulle strade. Il più buon kebap mai provato l’avevo mangiato qui, oggi non ci sono più locali o ristori. Manca l’elettricità, manca l’acqua, manca il cibo: un uovo costa 5 dollari, un kg di farina 20, una coppia gallo-gallina anche 300. E’ rimasto il controllo, anzi quello è aumentato.

Ovvero?
Israele vigila su tutto. Anche noi di Medici Senza Frontiere non possiamo fare nulla senza autorizzazione, dobbiamo comunicare tutto, a partire dagli spostamenti. Una volta ho mandato un operaio a sistemare un’antenna sul tetto e ad un certo punto mi hanno chiamato da Gerusalemme per dirmi che ci stava mettendo troppo a fare il lavoro. Hai la sensazione di vivere come un topo in una scatola di cartone: non ricordo una notte senza il boato provocato dalle bombe e dai missili. All’inizio è uno shock, poi quasi ti abitui.

Ma perché a distanza di tanto dall’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023 la situazione resta così drammatica?
Non so rispondere: Hamas ormai è stata decimata, i capi sono morti, ma il martellamento non si ferma. Nei cieli si vedono sempre i droni, molto rumorosi: quelli da ricognizione e quelli armati che sparano. Quasi tutti i pazienti che arrivano nelle nostre cliniche mostrano ferite provocate da proiettili sparati dall’alto verso il basso. Appunto dai droni, che colpiscono anche uomini, donne, bambini, anziani. Io ne ho visti tanti di piccoli e piccolissimi ricorrere alle cure dei nostri sanitari.

I volontari di Medici Senza Frontiere di che nazionalità sono?
Ci sono persone che provengono da tutto il mondo, ma la tendenza è appoggiarsi sui locali, che conoscono la realtà e sono preparati. La maggior parte del personale medico e sanitario è palestinese. Ho conosciuto medici bravissimi che avrebbero potuto tranquillamente andare a lavorare all’estero, lontani dai pericoli e ben pagati, ma che hanno scelto di rimanere qui. Uno di loro, poco prima che partissi, mi ha detto che aveva deciso di restare, di essersi appena sposato e che lui e sua moglie amano la vita. Mi ha folgorato: quanti fra noi, che non viviamo a Gaza, diciamo che amiamo la vita?

Tu conosci padre Gabriel Romanelli, il parroco rimasto ferito per un missile che ha colpito la sua chiesa. Ci hai parlato?
Lo conosco bene. E’ il pastore di una piccola, unita e attiva comunità cattolica con un centinaio di fedeli, che opera a Gaza City a fianco di quella cristiana ortodossa, più numerosa. L’ho sentito nei giorni scorsi, mi ha riferito di essere esausto ma che non lascerà mai i suoi parrocchiani. Avrei voluto passare a trovarlo nei due mesi passati in Palestina, ma mi aveva detto di non farlo perché la zona dove vive è diventata troppo pericolosa per gli attacchi israeliani.

Ma ci si può abituare alla guerra?
Per sopravvivere devi farlo. Ho visto dei miei colleghi palestinesi rimanere impassibili, senza neppure girare lo sguardo, nonostante il rombo e lo spostamento d’aria provocati da una bomba caduta non lontano da noi. Del resto anche i bambini giocano sulle macerie. Noi volontari per essere davvero d’aiuto dobbiamo indossare un impermeabile emotivo, non possiamo farci travolgere. Mi piacerebbe sentire più empatia verso questa tragedia da parte dell’occidente, anche da noi italiani. Difettiamo un po' di umanità: ci lamentiamo di ogni cosa e non pensiamo mai che è solo un caso se siamo nati nella parte fortunata del mondo. 

Mauro Cereda
 

( 31 luglio 2025 )

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