Washington, ultimo round. Poi, sarà intesa o guerra commerciale, senza alcun paracadute. Il team di negoziatori della Commissione Ue è partito alla volta degli Usa per quello che potrebbe essere il round finale di colloqui con l'amministrazione Trump sul dossier dazi. La squadra è stata raggiunta dal commissario Ue al Commercio Maros Sefcovic, che nella capitale americana insta discutendo con il suo omologo Howard Lutnick e l'altro caponegoziatore della Casa Bianca Jamieson Greer.
Negli States, l'Ue arriva consapevole di dover accettare il 10% che, di fatto, è alla base dell'intesa. Ma è nelle note a margine dello schema di accordo che tutto potrebbe saltare da un momento all'altro. Anche perché, come ha sottolineato il Financial Times, la posizione della Commissione si è inasprita nelle ultime ore. Se l'irrigidimento dell'esecutivo europeo sia concreto o sia solo un espediente tattico lo si potrà sapere solo mercoledì sera, alla luce dell'incontro tra Sefcovic e la controparte americana.
Di certo, a Bruxelles l'accettazione della tariffa base del 10% viene di per sé considerata come una concessione non da poco nei confronti di Washington. Da qui, la richiesta di esenzioni in diversi settori, il farmaceutico e l'automotive, sul quale l'esecutivo Ue ha tracciato una vera e propria linea rossa. Ma c'è anche un punto politico sul quale Bruxelles potrebbe chiedere un segnale a Donald Trump: l'impegno complessivo a ridurre le tariffe, considerate come una iattura in Europa.
Sull'opportunità di irrigidire la posizione negoziale ha pesato anche il pressing delle capitali europee, o almeno di quelle (Parigi ad esempio) che fin dall'inizio della guerra dei dazi, hanno chiesto alla Commissione di rispondere con nettezza alle minacce di Trump. Ma neanche a Palazzo Berlaymont sono disposti a tutto per un'intesa. "L'Ue ha il 22% del Pil globale, mentre gli Usa il 25%. Siamo abbastanza alla pari in termini di dimensioni e potere economico. Partiamo da un punto di forza. Trump non può maltrattarci come sta facendo con il Canada e la Gran Bretagna", è stato l'avvertimento lanciato da Manfred Weber, leader di quel Ppe del quale anche Ursula von der Leyen fa parte. Il tempo stringe, i colloqui si infittiscono ma l'intesa non è definibile ad un passo. Ue e Usa, tuttavia, concordano su una questione: arrivare ad un punto di incontro entro il 9 luglio, quando scadrà la sospensione dei dazi decisa da Trump. Washington propende per un accordo provvisorio, composto da fasi, su modello di quello raggiunto con Londra. Bruxelles punta ad un'intesa pià strutturata, che dia certezze a cittadini e imprese. Dal tipo di documento sul quale si raggiungerà il placet delle parti dipenderà anche la coreografia della firma.
A Palazzo Berlaymont questo aspetto è tutt'altro che scontato: in linea teorica la firma dovrebbe essere apposta da Trump e von der Leyen, plausibilmente alla Casa Bianca. Così, tuttavia, la presidente della Commissione sarebbe esposta all'ormai nota trappola dello Studio Ovale, fatale, ad esempio per Volodymyr Zelensky. Parallelamente - e soprattutto con un'intesa di principio - l'Ue potrebbe optare per lo schema cinese: far apporre la firma alle parti ma non alla presenza dei massimi vertici. A dispetto della forma, in ogni caso, sulla sostanza i Paesi membri, in qualche modo, saranno chiamati a dire la propria. Lo potranno fare già a metà luglio, quando nel calendario della presidenza danese compare un possibile Consiglio Ue sul Commercio. La riunione, in caso di mancato accordo, si renderà necessaria. E in quel consesso prenderanno forme le possibili misure di ritorsione su cui la Commissione continua a lavorare.
Rodolfo Ricci