Chi ha ucciso il campionato più bello del mondo? La domanda circola da anni negli ambienti del calcio italiano: tifosi, commentatori (non chiamiamoli più opinionisti, per carità), allenatori, addetti ai lavori sotto diverse spoglie e spogliatoi. Tutti con un elenco di risposte ineccepibili, magari ognuno con un ordine diverso: stadi inadeguati, vivai non valorizzati, squadre imbottite di stranieri, violenza gratuita non arginata, calendario troppo fitto anche a causa della dittatura delle tv a pagamento, relativi diritti iniquamente ripartiti tra le società. Eccetera, eccetera, eccetera. Insomma, la serie A di una volta, il campionato più bello del mondo non abita più in Italia. La cosa è vera sotto tutti gli aspetti di cui sopra. Eppure ... eppure non è affatto corretto dire che tutto è peggiorato o è rimasto fermo. La crisi incoraggia il partito dei piccoli passi. Chi segue il calcio ricorda il campionato in cui chi vinceva prendeva due punti, chi pareggiava uno, chi perdeva naturalmente zero. Risultato? Una serie infinita di partite malate di pareggite. Squadre che aventi minuti dalla fine si accontentavano di dividere la posta per ”muovere la classifica”. La tattica sprofondava in espedienti: quando si voleva perdere tempo un bel passaggio indietro al portiere che prendeva il pallone in mano con tutta calma prima di rilanciare. Poi c’era il frequentissimo caso del difensore della squadra di casa in vantaggio che respingeva il pallone alla ”viva il parroco” sulle tribune , pallone restituito al campo solo dopo un po’, dopo molto po’ se veniva intercettato anche dal raccattapalle, giovanissimo ma già svezzato. Ma non tutto è rimasto fermo. Rispetto ai tempi sospirati della ”serie A di una volta” è stato deciso di utilizzare palloni di riserva, e così quando ne esce uno ne entra immediatamente un altro. E’ stata introdotta la regola che impedisce al portiere di prendere con le mani il pallone ricevuto da un retropassaggio. Dalla stagione 1994-1995 chi vince incassa tre punti. Risultato? In genere, ritmo più incalzante e partite spesso giocate fino all’ultimo secondo per vincerle, perché un punto solo serve ormai a poco. Di espedienti furbastri, è vero, ne sono rimasti tanti; altri sono stati brevettati. Alcuni esperimenti attesi sono riusciti, altri stanno fallendo. Nel complesso comunque, in termini di spettacolo, nel calcio molto si è mosso, qualcosa è perfino migliorata. La crisi incoraggia il partito dei piccoli passi. Quelli che forse non risolvono tutto, che forse anzi creano nuovi interrogativi e nuovi problemi da risolvere. Ma che fanno andare avanti. Certo, possiamo orgogliosamente dire ”la politica di una volta”, stilando un elenco di esempi virtuosi, magari ognuno con un ordine diverso: sezioni affollate e partecipate, scuole di formazione, calendario d’aula fitto, sobrietà di comportamenti. Chi segue la politica ricorda tempi di maggiore passione e informazione, di più numerose personalità da statista, di compromessi (concetto nobilissimo) tra forze diverse per obiettivi comuni, soprattutto nelle stagioni più drammatiche. Risultato? Decenni di democrazia, valore mai scontato, tanto più in quel contesto internazionale. Ma anche governabilità incerta e a tempo; e indefinita assunzione di responsabilità (con relativa esplosione del debito pubblico). Insomma, la sindrome da ”pareggi - te” invade da anni anche il campo politico. Provare sempre a vincere la partita non è automaticamente sinonimo di un leaderismo confinante con la deriva autoritaria. La regola dei tre punti può dunque venire ancora una volta in aiuto. Nel momento in cui un punto non serve più a nessuno. Il ritmo della partita potrebbe alzarsi se una legge non passasse più da una Camera all’altra con identiche funzioni. Abbiamo sempre sentito dire da mister politici di formazioni diverse che questa era la riforma economica più urgente. La definizione più chiara delle competenze tra Stato e Regioni potrebbe dare l’amalgama necessaria ad una squadra che ha un enorme bisogno di sentirsi tale. La riduzione di alcuni costi potrebbe contribuire a riportare la gente alle urne. Magari con una partecipazione da studio più che da stadio. Si poteva fare di più, di meglio? Certamente sì. Ma l’alternativa è restare fermi. La crisi incoraggia i piccoli passi di squadra, da scoraggiare semmai sono i piccoli passaggi personali.